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Diritto di sciopero e blocchi stradali
Attilio Carnabuci
Sommario: 1. Premessa. - 2. I blocchi stradali. - 3. Sistema sanzionatorio. - 4. De iure condendo. Conclusioni
1.Premessa
Con il termine sciopero si intende l’astensione concertata dal lavoro da parte di una pluralità di lavoratori per la tutela dei loro interessi collettivi, solitamente di carattere economico e professionale[1]. La libertà di sciopero, intimamente collegata alla nascita ed alla evoluzione dello Stato liberale, può dirsi fornire una rappresentazione icastica dei profondi cambiamenti verificatisi, a partire dalla rivoluzione industriale, nei rapporti fra lo Stato (inteso come Autorità) e i cittadini. Fino alla seconda metà del secolo XIX, infatti, gli ordinamenti giuridici europei non riconoscevano ai lavoratori di qualsivoglia comparto produttivo alcuna tutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive. Ovunque, il diritto di associazione sindacale e di sciopero erano vietati ed, all’occorrenza, repressi con la forza. Fu la Francia ad ammettere, per la prima volta, il diritto di sciopero con la Legge Ollivier del 1864. Seguì, alcuni anni più tardi, la Gran Bretagna, la quale, con il Master and Servant Act del 1867, abolì la pena del carcere fino ad allora prevista in caso di astensione collettiva dal lavoro a scopo di rivendicazione. In Italia, lo sciopero fu considerato come un comportamento penalmente illecito fino al 1889. In quell’anno, il Codice Zanardelli abolì formalmente il reato di sciopero; tuttavia, il lavoratore che poneva in essere tale pratica era passibile di sanzioni disciplinari da parte del proprio datore di lavoro che potevano anche portare al licenziamento: secondo la giurisprudenza dell’epoca, infatti, lo sciopero, sebbene lecito per l’ordinamento penale, integrava comunque gli estremi dell’inadempimento contrattuale. Durante il regime fascista, la L. 3 aprile 1926, n. 563 (Disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro) stabilì che i contratti collettivi di lavoro, aventi efficacia normativa, potevano essere stipulati esclusivamente dalle organizzazioni sindacali legalmente riconosciute (art. 10) e proibì lo sciopero in tutte le sue forme (art. 18 e seguenti), considerandolo come un comportamento contrario non solo agli interessi (privati) della classe imprenditoriale ma anche della stessa economia nazionale. La Costituente, per la prima volta previde espressamente la tutela della libertà di sciopero, inserendola all’art. 40 della Costituzione repubblicana. L’esercizio della libertà di sciopero e gli scontri tra operai e forze dell’ordine che caratterizzarono buona parte degli anni settanta e parte dei primi anni ottanta, aprirono un dibattito circa la necessità che la detta libertà non venisse esercitata, in concreto, travalicando i confini che le sono propri e finendo, inevitabilmente, con il comprimere la sfera di altri diritti, parimenti rilevanti e degni di essere tutelati (così detti “limiti esterni”). La giurisprudenza di legittimità, a tale proposito, nel ritenere legittime le cosiddette “forme anomale di sciopero” (a singhiozzo, a scacchiera, bianco, a gatto selvaggio, etc.), anche nel caso in cui comportino un sacrificio maggiore per il datore di lavoro, stabilì a chiare lettere il principio secondo cui al diritto di sciopero, quali che siano la sua forma di esercizio (e l’entità del danno arrecato al datore di lavoro), non possono essere ascritti altri limiti se non quelli che si rinvengono in disposizioni normative che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano quanto meno paritario, quali il diritto alla vita e all’incolumità personale nonché la libertà dell’iniziativa economica, cioè, dell’attività imprenditoriale in quanto tale, considerata alla stregua di concreto strumento per la realizzazione del diritto costituzionale al lavoro per tutti i cittadini[2]. L’attuazione dell’art. 40 Cost. ( che recita testualmente: “Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano”) ha evidentemente, da una parte, riconosciuto esplicitamente lo sciopero come “diritto”, conferendo, in un certo senso, effettività al principio di libertà di organizzazione sindacale previsto dall’art. 39, comma 1, Cost.; d’altra parte, però, la stessa disposizione, inserita nel contesto degli altri diritti di rango costituzionale, ne ha vincolato l’esercizio nell’ambito – e, per ciò stesso, nei limiti - delle leggi che lo regolano e lo circoscrivono. Allo scopo di definire gli ambito corretti di esercizio del diritto allo sciopero, la Legge 12 giugno 1990, n.146 ha introdotto, nel nostro ordinamento giuridico, una regolamentazione dell’esercizio del diritto stesso nei servizi che, sulla base dei criteri dalla stessa previsti, debbono qualificarsi come “pubblici ed essenziali”, con l’intento di contemperare e bilanciare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti fondamentali della persona, costituzionalmente tutelati[3] (art.1).
2. I blocchi stradali.
Del non sempre facile equilibrio e bilanciamento fra il diritto di sciopero e il godimento dei diritti in ultimo considerati sono prova tangibile le condotte di quei manifestanti che, nel rivendicare la tutela di propri interessi o nell’esprimere il proprio dissenso rispetto a determinate decisioni ritenute suscettibili di creare un pregiudizio alla categoria di appartenenza, pongono in essere comportamenti che determinano, nei fatti, la interruzione di attività necessarie per l’intera collettività. Si pensi, per esempio, all’occupazione di binari ferroviari o ai recenti episodi di ostruzione e ingombro di importanti arterie stradali ad opera di manifestanti decisi ad esprimere la loro protesta anche ostacolando o impedendo la libera circolazione delle persone e/o delle cose. E’ evidente che qualsiasi impedimento o limitazione della circolazione stradale o ferroviaria, nella misura in cui non consenta a ciascuno il libero esercizio dei propri diritti, determina una restrizione della libertà personale e un pregiudizio riguardo alle ordinarie attività della vita associata. Il 20 giugno 2001, le associazioni nazionali degli autotrasportatori in conto terzi hanno sottoscritto un Codice di autoregolamentazione, valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (delibera n. 01/93 del 19 luglio 2001), il quale dispone, espressamente che: “La proclamazione della protesta non deve prevedere l’effettuazione di blocchi stradali o di iniziative già sancite e sanzionate dal codice della strada in materia di circolazione stradale”. L’autodisciplina prevede, più in generale: “criteri circa i periodi di effettuazione delle iniziative sindacali, un congruo preavviso, la durata e la salvaguardia di interessi essenziali (ospedali, scuole, enti assistenziali, attività a ciclo continuo, ritiro del latte, distribuzione dei quotidiani)” e individua quattro tipologie delle azioni di autotutela: 1) nazionale generale 2) locale o territoriale 3) settoriale 4) per specifiche committenze I tempi di preavviso dell’azione – che, in conformità alle prescrizioni del Codice di autoregolamentazione, deve essere comunicata alla Commissione di garanzia, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ed, in caso di azioni locali ai Presidenti delle Regioni interessate ed ai Prefetti - sono i seguenti: a) almeno 25 giorni per il fermo nazionale; b) almeno 20 giorni per il fermo settoriale; c) almeno 15 giorni per le azioni locali o nei confronti di specifica committenza. Al fine di contemperare le azioni di autotutela con gli interessi più generali e di assicurare un livello di prestazioni indispensabili non inferiore a quelli indicati dalle vigenti norme, inoltre, nel Codice di autoregolamentazione è previsto che, durante l’effettuazione delle azioni di sciopero, siano comunque assicurati i seguenti servizi: - trasporto e distribuzione stampa e materiale elettorale al fine di garantire la libertà di comunicazione ed il regolare svolgimento delle consultazioni elettorali; - trasporto e distribuzione a giorni alterni del latte; - trasporto di tutti i prodotti destinati a ospedali, farmacie ricoveri, mense, scuole, cliniche, case di cura, al fine di tutelare il rifornimento nei luoghi di istruzione e di assistenza; - trasporto di animali vivi destinati alla macellazione per assicurare i rifornimenti indispensabili agli stabilimenti destinati a tale scopo; - trasporto di materiali agli altiforni, limitatamente al materiale destinato al mantenimento delle necessarie calorie al fine di garantire l’approvvigionamento solo per quanto attiene alla sicurezza degli impianti; - trasporto di rifiuti, acqua potabile e prodotti per allevamento, quando l’emergenza è sancita dalle Aziende Sanitarie Locali competenti per territorio con richiesta avanzata dalle prefetture oppure da organismi territoriali della protezione Civile; - trasporto di carburante alla rete di pubblico approvvigionamento, nella misura del 50%, che si realizzerà tramite il concorso degli automezzi in disponibilità del conto proprio. E’ prevista, altresì, una durata massima del fermo, che non può essere superiore a 5 giorni e non può effettuarsi dal 20 dicembre al 6 gennaio, nella settimana che procede e quella che segue le festività Pasquali, dal 10 al 20 agosto, in concomitanza con i giorni di scioglimento delle Camere e nei tre giorni precedenti e successivi alle consultazioni elettorali regionali. Le azioni possono essere ripetute solo a distanza non inferiore a 30 giorni. Ai fini di una efficace informazione agli utenti dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi minimi garantiti, il Codice di autoregolamentazione prevede che le Organizzazioni degli autotrasportatori diano comunicazione delle modalità delle azioni di autotutela alle Autorità competenti, al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, agli Organi di informazione, agli appositi Uffici costituiti presso le Autorità competenti ad emanare l’ordinanza di cui all’art. 8 Legge n. 146 del 1990, come modificata dalla L. n. 83/2000 (Modifiche ed integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati)[4], e ciò almeno 5 giorni prima dell’inizio dell’azione di autotutela. L’astensione collettiva nazionale è preclusa agli autotrasportatori quando sia concomitante con altre astensioni collettive, aventi le medesime caratteristiche già proclamate e rese di pubblico dominio dalle organizzazioni sindacali riconosciute maggiormente rappresentative, relative al trasporto merci ferroviario e via mare. In ogni caso, le agitazioni debbono essere immediatamente sospese in caso di avvenimenti eccezionali o di calamità naturali.
3. Sistema sanzionatorio
Il Codice di autoregolamentazione cui si è fatto sopra riferimento prevede, in primo luogo, che le associazioni che contravvengono alle sue prescrizioni non possono, per un periodo massimo di due anni, sottoscrivere gli accordi collettivi di cui all’art. 13 del D.M. Trasporti 18 novembre 1982 (Approvazione delle tariffe per i trasporti di merci su strada per conto di terzi eseguiti sul territorio nazionale) e sono escluse dalle commissioni tecniche relative ai problemi dell’autotrasporto costituite con appositi decreti ministeriali dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Inoltre, i singoli soggetti, così come indicati nella Legge n.146 del 1990, che aderiscono ad astensioni collettive proclamate in violazione al Codice di autoregolamentazione, incorrono nelle sanzioni di cui ai punti c) e d) dell’art 21 della Legge 6 giugno 1974, n. 298 (Istituzione dell'albo nazionale degli autotrasportatori di cose per conto di terzi, disciplina degli autotrasporti di cose e istituzione di un sistema di tariffe a forcella per i trasporti di merci su strada) e cioè, rispettivamente, nella sospensione dall'albo da un mese a sei e nella radiazione dall'albo nei casi di reiterata grave violazione. In ogni caso, l'inosservanza delle disposizioni contenute nell'ordinanza di precettazione, di cui all'articolo 8 delle Legge n. 146 del 1990, è assoggettata alle sanzioni deliberate dalla Commissione di Garanzia. Più in generale, il sistema sanzionatorio in materia di libera circolazione sulle strade ferrate e ordinarie (nonché in materia di libera navigazione) è disciplinato dal Decreto Legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione), il quale, nella sua attuale formulazione, introdotta dal Decreto Legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio) in applicazione della Legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), prevede due tipologie differenti di condotte illecite, inquadrabili entrambi come «blocco stradale». L'articolo 1 del suddetto Decreto Legislativo, in particolare, punisce con la reclusione da uno a sei anni le condotte finalizzate ad impedire o ad ostacolare la libera circolazione su una strada ferrata, attuate deponendo o abbandonando congegni o altri oggetti di qualsiasi specie. Esso prevede, inoltre, la medesima sanzione per chi depone o abbandona congegni od oggetti in una zona portuale o nelle acque di fiumi, canali o laghi, o comunque le ostruisce o le ingombra, al fine di ostacolare la libera navigazione. La pena è raddoppiata se il fatto è commesso da più persone, anche non riunite, ovvero se è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose. L'articolo 1-bis, introdotto dal medesimo Decreto Legislativo n. 66 del 1948 a seguito della riforma del sistema sanzionatorio del 1999, punisce, invece, con una sanzione amministrativa pecuniaria tutte le condotte intese a impedire o, comunque, ad ostacolare la libera circolazione sulle strade ordinarie, salvo che il fatto integri un'altra fattispecie penalmente sanzionata: “Chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone od abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, è punito, se il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire due milioni a lire otto milioni. Se il fatto è commesso da più persone, anche non riunite, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di un somma da lire cinque milioni a lire venti milioni”. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta ai sensi dell'articolo 16 della Legge 24 novembre 1981, n. 689 (così detta “Legge generale di depenalizzazione”). Nella sua originaria formulazione, il Decreto Legislativo n. 66 del 1948 prevedeva sanzioni penali (in particolare, la reclusione da uno a sei anni) sia per il blocco delle strade ferrate e l'ostacolo alla navigazione che per il blocco delle strade ordinarie: “Chiunque, al fine di impedire ed ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ferrata ed ordinaria o comunque ostruisce ed ingombra, allo stesso fine, la strada stessa, è punito con la reclusione da uno a sei anni. Si applica la pena anzidetta anche quando il fatto è commesso in una zona portuale o nelle acque di fiumi, canali o laghi, al fine di impedire od ostacolare la libera navigazione. La pena è raddoppiata se il fatto è commesso da più persone, anche non riunite, ovvero se è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose”. Come si è accennato, la trasformazione da illecito penale in illecito amministrativo del blocco stradale è stata operata in attuazione della Legge 25 giugno 1999, n. 205, con la depenalizzazione di fattispecie di reato di varia natura, relative, tra l’altro, alla circolazione stradale ed all'autotrasporto. Si reputa opportuno soggiungere, infine, che, ai sensi dell’art. 340 del codice penale, fuori dei casi previsti da particolari disposizioni di legge, l’interruzione o il turbamento della regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica utilità configura un illecito penale ed è punito con la reclusione fino a un anno; i capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni.
4. De iure condendo. Conclusioni
Da alcune forze politiche, l'attuale disciplina sanzionatoria dell’impedimento, in caso di sciopero, della libera circolazione con blocchi stradali non è ritenuta sufficientemente garantista nei confronti del diritto costituzionale di libertà di circolazione dei cittadini nel territorio nazionale. Da tale punto di vista, anche il processo di depenalizzazione avviato nel 1999 è stato criticato, da più parti, in quanto avrebbe finito con il determinare un trattamento sanzionatorio eccessivamente “benevolo”, per così dire, nei confronti degli autori di determinate condotte contra legem in occasione di manifestazioni suscettibili di provocare intralci o blocchi della circolazione stradale. Per cercare di ovviare ai limiti della legislazione vigente, è stata presentata, nell’attuale legislatura, la proposta di legge n. 3475 al fine di “reintrodurre nell'ordinamento il reato di blocco stradale, quale fattispecie di rilevanza penale che si configura ogniqualvolta venga impedita od ostacolata, in vario modo, la circolazione su strada ordinaria o ferrata, a prescindere dal fatto che quella determinata condotta possa configurarsi ad altro titolo come reato”. La proposta, in particolare, si prefigge lo scopo di abrogare l'articolo 1-bis del Decreto Legislativo n. 66 del 1948, estendendo la reclusione a tutte le tipologie di condotta riconducibili al blocco stradale, mantenendo inalterato il raddoppio della pena nei casi di concorso di persone nel reato, ovvero se il reato è commesso esercitando violenza o minaccia. Inoltre, attraverso l'inserimento della lettera b-bis) del comma 2 dell'articolo 380 del codice di procedura penale, viene altresì previsto l'arresto nei casi di flagranza di reato. Sul piano sanzionatorio resterebbe invariata la pena detentiva, graduata in ragione della gravità del delitto, da uno a sei anni di reclusione, mentre verrebbe introdotta, in aggiunta, la sanzione pecuniaria della multa di importo non superiore a 5.164 euro. In altri termini, la proposta di legge equipara incondizionatamente, sul piano sanzionatorio, l’ostruzione o l’ingombro di una strada ordinaria a quello di una strada ferrata ed all'ostacolo alla navigazione. Come si legge nella relazione all’atto parlamentare in questione: “Verrebbe, sostanzialmente, recuperato il tenore letterale originario del decreto legislativo n. 66 del 1948, ristabilendo un parallelo trattamento sanzionatorio per il blocco della strada ferrata e della navigazione e per il blocco della strada ordinaria. In base al principio della «ragionevole continenza», infatti, due diritti dello stesso rango trovano una limitazione solo nella misura in cui il relativo esercizio consenta la reciproca salvaguardia, in un quadro di equo contemperamento che non può non riflettersi anche sull'assetto legislativo e, in caso di violazione, sul sistema sanzionatorio. Deve, infatti, ritenersi che l'assetto delle libertà fondamentali, così come concepito dalla Costituzione del 1948, non contempli alcun rapporto gerarchico tra le disposizioni di cui agli articoli 16 e 21 della Carta costituzionale, le quali, essendo poste su un livello di equilibrio assolutamente paritario, necessitano di eguali strumenti di protezione sul piano della legislazione ordinaria”. I proponenti ritengono, inoltre, che la proposta risponda all'esigenza di garantire in maniera più efficace il diritto alla libertà di circolazione, di cui all'articolo 16 della Costituzione: “Il blocco stradale (…) costituisce una fattispecie di notevole disvalore sociale ed è percepito dall'opinione pubblica come un odioso e intollerabile impedimento, che inficia non solo in via diretta la libertà di circolazione delle persone, di cui all'articolo 16 della Costituzione, ma anche, in via indiretta e mediata, la libertà inviolabile della persona umana, di cui all'articolo 13 della medesima Costituzione. Qualsiasi ingombro, intralcio o impedimento tale da limitare la circolazione stradale, nella misura in cui non consenta a ciascuno il libero esercizio delle proprie attività mediante l'utilizzo della propria autovettura, produce una restrizione della libertà personale e realizza una particolare forma di «sequestro di persona» che, pur non esercitando una coercizione fisica sulla vittima, comporta comunque una parziale privazione della libertà individuale. Nell'epoca moderna, caratterizzata da un uso sempre più frequente dell'autovettura per gli spostamenti personali, una fattispecie come il blocco stradale si risolve in una evidente limitazione delle capacità di locomozione della persona umana, pregiudicando altresì le ordinarie attività della vita quotidiana”. La proposta di legge riveste un certo interesse, avendo indubbiamente il merito di ristabilire un trattamento sanzionatorio paritario riguardo a condotte di analogo disvalore sociale, quali il blocco della strada ferrata e della navigazione ed il blocco della circolazione stradale. Più in generale, tuttavia, si reputa legittimo nutrire qualche perplessità in ordine alla reale efficacia, sul piano pratico, della politica legislativa volta a ricondurre l’illecito di cui trattasi nell’alveo del diritto penale. Se, infatti, sul piano puramente teorico ed astratto, l’inversione di tendenza rispetto alla politica di depenalizzazione avviata nel 1999 obbedisce, senza alcuna ombra di dubbio, alla finalità di mettere in risalto la intangibilità del diritto alla libera circolazione dei cittadini, non è affatto scontato che la reintroduzione del reato di blocco stradale, così come concepito dal legislatore (“Chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone od abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, è punito …”) si risolva in un effettivo rafforzamento della tutela del predetto diritto, dal momento che è necessario, comunque, dimostrare, ai fini della configurabilità del reato, la presenza del dolo specifico in capo all’autore della condotta, e cioè che la stessa condotta sia finalizzata proprio a creare un impedimento od un ostacolo alla libera circolazione (impedimento od ostacolo che non è, peraltro, necessario si realizzino) e non, come è ben più probabile, a rivendicare la tutela di propri interessi o ad esprimere il proprio dissenso rispetto a determinate decisioni ritenute suscettibili di creare un pregiudizio alla categoria di appartenenza. In effetti, in considerazione anche del ripetuto ricorso a tale forma di contestazione avvenuto negli ultimi anni, allo scopo di rafforzare davvero la tutela del diritto alla libera circolazione dei cittadini sarebbe forse più opportuno, in sede di riforma della norma di cui trattasi, che il legislatore focalizzasse la sua attenzione, più che sulla tipologia di sanzioni da comminare, proprio sulla condotta integrante gli estremi dell’illecito, descrivendo in maniera più precisa i comportamenti non ammessi, considerando l’effetto e non il fine, l’impedimento o l’interruzione della libera circolazione, il cui accertamento oggi risulta problematico se considerato come requisito volontario e non come effetto della condotta, attualmente necessario ai fini della sua configurazione, rischia di inficiare, nei fatti, l’efficacia stessa delle norme in vigore. Il reato dovrebbe, essere sempre considerato come fattispecie contro l’ordine pubblico e dovrebbe rendere perseguibile già l’intento generico di creare disturbo e/o disordine nella circolazione, aggravato dall’eventuale verificarsi del blocco o dell’impedimento della circolazione stessa.
------------------------------------------------------------------------------------------------------- [1] Cfr. sentenza Corte di Cassazione 30 gennaio 1980, n. 711, in Giust. civ. 1980, I, pag. 1088, secondo la quale: “Con la dizione ‘sciopero’ va intesa un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune, rimanendo estranea a tale nozione qualsiasi delimitazione attinente all’ampiezza della astensione”. [2] Ibidem. [3] Si tratta, in particolare, dei diritti “alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione”. [4] La norma, come è noto, prevede la possibilità di ricorrere alla c.d. precettazione, indicandone il presupposto nel fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente garantiti, a causa del mancato funzionamento dei servizi di preminente interesse generale dovuto alle modalità in cui si è estrinsecata l’astensione collettiva. Il potere di adottare tale ordinanza è attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri o ad un Ministro da lui delegato, in caso di conflitto di rilevanza nazionale, ovvero al Prefetto, negli altri casi. L’autorità precettante deve, comunque, in primo luogo, invitare le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di pericolo, esperendo un tentativo di conciliazione, da esaurire nel più breve tempo possibile; solo nell’ipotesi in cui il tentativo non riesca, può adottare, con l’ordinanza di precettazione, le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati.