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Il caso dell'art. 219 bis codice stradale. Riflessioni per un ciclismo responsabile

Pierpaolo Martucci

Sommario: 1. Introduzione. Breve storia del velocipede 2. La cultura della trasgressione. Il caso della "massa critica" 3. Le modifiche al Codice della strada nella legge n.94/2009 e il successivo “ripensamento” nella legge n.120/2010 4. Il secondo comma dell’art.219 bis CdS, "incidente di percorso" od occasione mancata? 5. Per un ciclismo responsabile

 

 

 

1 Introduzione.  Breve storia del velocipede

 

     Nel sentire comune è radicata la convinzione che il veicolo –  termine inteso nel senso di "mezzo di trasporto per persone o cose, specialmente  meccanico e guidato dall'uomo" (Zingarelli, Vocabolario della Lingua italiana) - mondialmente più diffuso sia ovviamente l'automobile. In realtà si tratta di un errore di prospettiva: considerando la situazione dei paesi emergenti (in particolare il blocco costituito dall'area di India, Cina ed Indocina, che da solo comprende circa due miliardi e mezzo di individui), si constata che il veicolo numericamente più diffuso e utilizzato dall’umanità è la bicicletta.  La massiccia motorizzazione dell'ultimo mezzo secolo ha modificato la percezione socioculturale del velocipede, inducendoci a collocarlo nell'area dello sport, del gioco, del tempo libero. In realtà proprio  la bicicletta è stata in assoluto il primo mezzo di trasporto meccanico individuale svincolato dal trasporto animale e accessibile alle masse, all'esito di un processo di elaborazione tecnico-concettuale protrattosi per secoli.

    Il recente ritrovamento di uno schizzo nel Codex Atlanticus ha portato ad attribuire a Leonardo da Vinci (o più probabilmente ad un suo allievo), intorno al 1490,  un primo progetto di un congegno simile alla bicicletta. Tra le caratteristiche che più sorprendono nel disegno per la loro “modernità”, si notano le ruote di uguale grandezza, una sella fissata sull‘asse posteriore ed una trasmissione a catena sulla ruota posteriore azionata da un meccanismo a pedali; invece manca del tutto lo sterzo.  Come per altre straordinarie intuizioni del genio rinascimentale, non vi fu all'epoca alcun tentativo di realizzazione pratica ed il progetto rimase sconosciuto.

   Solo tre secoli più tardi comparve in Francia il Célerifère, un veicolo in legno dalla forma di cavallo, su due ruote uguali disposte in linea, costruito alla fine del XVIII secolo da un ignoto inventore e che il conducente doveva far avanzare con la spinta dei piedi. Qualche anno dopo,  ribattezzato Vélociferè, era diventato un passatempo alla moda fra i giovani di Parigi.

  L‘invenzione dello sterzo si deve a Karl Friedrich Christian von Sauerbronn, un tedesco che nel 1817 costruì una macchina in legno composta da un telaio e due ruote disposte in linea di uguale grandezza, con l‘anteriore in grado di sterzare.

    Tuttavia, la bicicletta nella sua versione attuale deriva da una sequenza di brevetti e innovazioni tecniche che si susseguirono nell'arco di poco meno di trent'anni, fra il 1861 ed il 1885.  Infatti, il 24 aprile 1861 Pierre e Ernest Michaux ottennero un brevetto francese per lo sfruttamento economico del velocipede a trazione anteriore (con pedali) da loro ideato. Seguirono importanti perfezionamenti, quali l'applicazione di anelli in gomma intorno alle ruote metalliche e la costruzione dei primi ingranaggi moltiplicatori della pedalata con trasmissione a catena, inizialmente applicati alla ruota anteriore. Nel 1879 H.J. Lawson brevettò un biciclo con trasmissione a catena sulla ruota posteriore, che chiamò “Biciclette”.

    Infine John Kemp Starley e William Sutton, presentarono nel 1885 il “Rover”, una nuova macchina con ruota anteriore da 36 pollici, sterzo con asta di accoppiamento, trasmissione a catena sulla ruota posteriore e telaio dall‘aspetto “quadro“, dal quale deriva quello ancora oggi in uso: si era ormai definita la bicicletta nelle sue caratteristiche moderne (poi costantemente perfezionate) destinata a divenire in gran parte d'Europa (Italia inclusa), fra l'inizio del Novecento ed il secondo dopoguerra il più diffuso mezzo di spostamento individuale. In effetti, già agli inizi del XX secolo l'impatto sociale del nuovo strumento di trasporto si poteva considerare assai rilevante,  anche per le sue ricadute sul costume. Non a caso proprio in quegli anni Cesare Lombroso, trattando dei rapporti fra invenzioni tecniche e nuove forme di criminalità, parlava dei “delitti ciclistici”, affermando con decisione:

 "Nessuno, invero, dei nuovi congegni summenzionati ha assunto la straordinaria importanza del biciclo, sia come causa che come strumento del crimine.  (…) Ciò può spiegarsi per molti modi: per l'enorme diffusione di questo meccanismo, non solo come mezzo di trasporto e di sollazzo, ma anche come amminicolo di guadagno nei record e nelle rivendite; come occasione di maggiori rapporti ed attriti fra gli uomini (…) tanto più quando tali rapporti si fanno maggiori proprio precisamente in quell'età, dai 15 ai 25 anni, che ha il massimo della tendenza criminosa; e fra gli sfaccendati e fra gli uomini esageratamente agili, che io ho anche da tempo addietro dimostrato essere più propensi ai delitti.”[1]  

   Ma il padre dell'antropologia criminale – accanto a forme di rapina, furto e truffe - individuava anche l'insorgere di una “delittuosità minore” inerente alla circolazione delle biciclette, più affine alla categoria attuale dei reati stradali:

“Accanto a questi grandi e veri delitti (…) ve n'hanno dei minori, come quelli dei ragazzi, che spargono di punte il terreno o forano con chiodi o con spilli le gomme, o si cacciano a bella posta al di sotto di un biciclo per farsene colpire e domandare gli indennizzi, o dei carrettieri brutali, specie nei paesi in cui il biciclo appare per la prima volta, che spingono le loro bestie contro il nuovo strumento e feriscono così colui che ne è in sella, o, viceversa dei biciclisti imprudenti, che schiacciano il passeggero (nel senso di pedone, NdA) distratto o mal destro.”

  “ In un paese crivellato di tasse, come l'Italia, è naturale che anche questo strumento ne sia colpito, con l'accompagnamento delle noie che sono sempre da noi aggiunte quale buona derrata alle tasse; e tale è appunto l'applicazione di un bollo speciale che si imprime sulla bicicletta con un anello metallico al momento del versamento della tassa; senza cui non ne è permessa la circolazione. Ma ecco che un forestiero entra da paesi più felici, dove non si sogna di tassare, bollare ogni cosa; egli non ha lo sciagurato anello, né il bollo, e vien subito multato e, ben inteso, arrestato e processato se s'impenna a rifiutarvisi.”

   “Questi bolli danno a lor volta adito a una nuova specie di reato; vi hanno nelle ferrovie, nelle rivendite in grande dei ladri che staccano il bollo da una bicicletta per rivenderlo e impiombarlo su una bicicletta non bollata; il che spiega e raddoppia lo strano zelo fiscale”.[2]

    Dopo la lunga eclisse dovuta all'accesso di massa alla motorizzazione, nell'ultimo decennio la congestione dei centri urbani, la necessità di abbattere i drammatici livelli di inquinamento, un intreccio di esigenze salutistiche, sportive, sociali o semplicemente ludiche hanno fortemente sostenuto la riscoperta della bicicletta come veicolo di uso frequente nelle città,  ma anche nelle aree verdi (il “ciclismo fuori strada” delle mountain bikes).

     Nel prossimo futuro il ruolo dei trasporti a due ruote diverrà rilevantissimo, innanzitutto nella versione motorizzata, tanto che, secondo lo studio sulle misure per ridurre l'inquinamento dei veicoli a due ruote elaborato dall'università di Tessalonica per conto della Commissione europea, nel 2020 le emissioni di idrocarburi da parte di moto e motocicli saranno più importanti di quelle di tutte le altre categorie di veicoli nell'Unione Europea.  Con un parco delle due ruote (escluse le biciclette) di oltre 5 milioni e mezzo di motoveicoli, l'Italia - che detiene uno dei tassi di motorizzazione più elevati del mondo, secondo agli Stati Uniti e, tra i Paesi Ue, primo davanti alla Germania - conta un numero di motocicli di appena 7 volte inferiore rispetto a quello delle autovetture. Ma la loro concentrazione in città come Roma supera oggi gli 800 mila motoveicoli circolanti.  A fianco di essi si colloca la massa delle biciclette – normali o anche potenziate elettricamente – il cui numero circolante non è valutabile neppure in approssimazione (vista l'assenza di qualsiasi obbligo di immatricolazione) ma  senza dubbio continuerà a crescere in misura rilevante.

     Rispetto ad una presenza sempre più importante nei contesti urbani ed extraurbani, è difficile negare che, in Italia, nel periodo recente il problema del controllo disciplinare delle condotte ciclistiche sia stato palesemente posto in secondo piano, se non sovente accantonato. Ciò non tanto per un vuoto normativo, quanto per una disapplicazione de facto delle regole, dovuta a  molteplici fattori, non ultimo dei quali un costume culturale che ascrivendo i ciclisti alla categoria degli utenti stradali c.d.”deboli”[3] e in pratica assimilandoli ai pedoni, li ha collocati in una classe vittimologica pregiudizialmente irresponsabile (nel senso di mai responsabile)  dunque assiomaticamente esente da sanzioni.  Questo nonostante il fatto che la bicicletta – ai sensi dell’art. 46 del Codice della strada, sia da considerarsi veicolo a tutti gli effetti. [4]

   E’ appena il caso di notare che se certamente la bicicletta – per dimensioni e velocità - presenta una bassa offensività nei confronti di terzi, rispetto ad automobili o camion, per altri versi essa costituisce senza dubbio un mezzo di trasporto particolarmente rischioso per la sostanziale assenza di sistemi di sicurezza e protezione (quali cinture, airbag, la presenza dell’abitacolo, ecc.), ragione per cui i ciclisti risultano i più vulnerabili fra i conducenti di veicoli.

    In effetti nel solo triennio 2007-2009 i ciclisti deceduti in sinistri stradali sono stati complessivamente ben 935 e quelli feriti addirittura 43872, in crescita rispetto agli anni immediatamente precedenti (elaborazione dati Il Centauro-Asaps su fonte Istat): il rischio di mortalità risulta il più alto in assoluto nell’ambito stradale, più del doppio del valore base. Su questa vera e propria mattanza incidono in misura significativa l’imprudenza e la leggerezza degli stessi ciclisti “spesso inosservanti delle più elementari regole della circolazione, che pure valgono anche per loro, ma vengono interpretate in modo molto approssimativo e disinvolto”[5], per citare un parere autorevole.

  Rispetto a queste cifre, vale la pena di sottolineare che per condurre un velocipede non è richiesto il conseguimento di alcun titolo e neppure aver compiuto una determinata età, né sono previsti obblighi assicurativi. Il Codice stradale (art.115) si limita a prescrivere che “chi guida veicoli o conduce animali deve essere idoneo per requisiti fisici e psichici”, ma ciò appare sostanzialmente privo di significato per i ciclisti, i quali non sono tenuti a sottoporsi ad alcun accertamento, non dovendo ottenere abilitazioni di sorta.

 

2. La cultura della trasgressione. Il caso della "massa critica"

 

    L'atteggiamento di superficialità e indifferenza che molti ciclisti ostentano per le norme della circolazione stradale talvolta travalica le scelte personali, per assumere in taluni contesti culturali e aggregativi aspetti quasi “ideologici”, con atteggiamenti di deliberato antagonismo: è il caso – emblematico fra tutti – del fenomeno della cosiddetta  “massa critica”. 

   La “massa critica” (traduzione dell'originario termine inglese critical mass) è un raduno spontaneo di ciclisti i quali, sfruttando la forza del numero (massa), invadono le strade della normale circolazione urbana. Se la massa è sufficiente (ovverosia critica) il traffico motorizzato viene rallentato ed anche bloccato pure su  arterie di grande comunicazione, come viali a più corsie. In realtà si tratta di un fenomeno sociale di non facile definizione, trattandosi di un evento privo di una vera struttura organizzativa formale.  Esso nasce da appuntamenti – di solito fissati in luoghi pubblici e ad elevata visibilità (piazze, adiacenze di monumenti, ecc.)- i quali vengono pubblicizzati mediante affissioni,  passa parola in circuiti di amicizie e di attivismo politico, comunicazioni su Internet. Questi raduni, con cadenza mensile o anche settimanale, si propongono di divenire appuntamenti fissi nella vita di una città.  Se una sufficiente quantità di  biciclette si presenta nel luogo e nell'orario prefissati, queste si mettono in movimento sulle strade urbane formando un blocco compatto, che occupa una o più corsie stradali, spostandosi alle velocità del ciclismo non agonistico, vale a dire dai 10 ai 20 km/h. Il risultato, nei propositi dei partecipanti, sarebbe quello – rallentando o addirittura arrestando il frenetico scorrimento del traffico – di creare oasi di bassa velocità, dove i ciclisti possono spostarsi e socializzare in tutta sicurezza. 

   Non esistono numeri minimi (possono bastare qualche decina) o massimi  (si sono contati anche migliaia di ciclisti) prefissati di partecipanti all'evento, e la maggior parte delle volte lo stesso itinerario è rimesso alla volontà o all'improvvisazione di chi si pone in testa alla colonna. Ad eccezione delle iniziative per divulgare date e luoghi dei raduni, non esistono strutture gerarchiche od organizzazioni interne di alcun genere, in un contesto che oscilla fra democrazia diretta o vero e proprio spontaneismo anarchico programmatico, tanto che la massa critica è stata spesso definita una “coincidenza organizzata”. L'aggregazione condivide l'obiettivo di occupare le strade ed escluderne i mezzi motorizzati, sulla spinta di un coacervo di motivazioni eterogenee: dall'ambientalismo al desiderio di socializzare, dalla volontà di affermare la “cultura dei pedali” al puro gusto della provocazione e della “disubbidienza civile”, ben espresso in uno degli slogan utilizzati:  « Noi non blocchiamo il traffico, noi siamo il traffico! ».

    Sembra che il fenomeno abbia avuto le sue origini in California nel 1992, da dove si è poi diffuso in molte altre parti del mondo.[6] In Italia si è manifestato in città come Torino, Milano, Roma, Napoli, Catania, anche per rivendicare lo sviluppo di un'adeguata rete di percorsi ciclabili. In particolare a Torino ha assunto il carattere di un movimento semiorganizzato i cui aderenti comunicano da anni mediante un apposito sito web (www.massacriticatorino.it).

   Ciò che in questa sede interessa rilevare è come le caratteristiche dei raduni determinino inevitabilmente – e deliberatamente – l'inosservanza di una serie di norme stradali, in particolare quelle relative all'art. 182 CdS:  l'occupazione della viabilità normale anche quando esistono piste ciclabili (da taluno ritenute “una forma di apartheid”), il procedere affiancati e in gruppo causando il rallentamento e il blocco della circolazione dei veicoli a motore, il mancato rispetto degli stop semaforici e delle precedenze agli incroci quando questo potrebbe determinare frazionamenti della “massa critica”.  In questi eventi – come anche nei forum telematici e nei blog che vi fanno riferimento  - emerge spesso la rivendicazione di una sorta di diritto alla trasgressione, in nome di una affermata “superiorità” culturale, ecologica e civile del ciclista, che non sarebbe tenuto ad osservare le regole fissate per la circolazione dei veicoli.

  Peraltro, senza richiamare ciò che avviene in occasioni particolari, è di diretta evidenza quanto siano comuni talune condotte improprie fra gli utenti dei velocipedi, condotte che evidentemente gli autori non percepiscono per ciò che realmente sono: vere violazioni del Codice stradale e del relativo Regolamento di attuazione.  In particolare, ricordiamo fra le più diffuse:

§         procedere sul marciapiede intralciando e mettendo a  rischio i pedoni (violazione dell'art. 182 CdS, n.4);

§         transitare affiancati in ambito urbano ed extraurbano e spesso in numero superiore a due (violazione dell'art.  182 CdS, capoverso);

§         superare gli attraversamenti pedonali senza scendere dalla bicicletta e senza “accompagnarla” a mano (art.41 CdS);

§         circolare su biciclette (tipo mountain bike) prive del campanello e delle luci di segnalazione[7], al di fuori delle competizioni sportive (violazione art.68 CdS, n.6);

§         procedere contro mano nei sensi unici;

§         usare il cellulare durante la guida;

§         farsi trainare o trainare altri veicoli o condurre animali (ad es. cani);

§         trasportare adulti su velocipedi non appositamente attrezzati; trasportare bambini senza l'impiego di seggiolino o di cinture (violazione dell'art. 182 CdS, n.5).[8]

     Tuttavia, nel corso del 2009, il legislatore è sembrato abbandonare l’usuale basso profilo rispetto a questo malcostume, con l’adozione di scelte contrassegnate da un netto inasprimento sanzionatorio.

 

 

 

3. Le modifiche al Codice della strada nella legge  n.94/2009 e il successivo “ripensamento” nella legge  n.120/2010

 

     Riprendendo la modalità ormai consolidata (ma non per questo meno discutibile) del provvedimento monstre, il 15 luglio 2009 le forze politiche di area governativa erano giunte  all'approvazione della legge n.94 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”) attraverso tre maxi emendamenti. Il termine non è affatto inappropriato: interessando  una congerie di materie, i 3 articoli del c.d. “pacchetto sicurezza” consistevano complessivamente di ben 127 commi, da cui sono derivate 43 modifiche al Codice penale, 38 al Testo unico sull'immigrazione, 16 all'Ordinamento Penitenziario e circa 100 ad altre normative. 

    Fra queste ultime, si segnalavano alcuni interventi che hanno novellato disposizioni del Codice della strada: particolare sensazione suscitava il comma 48 dell'art.3 della legge 94/09, che aveva introdotto l'art. 219 bis CdS, relativo alle sanzioni amministrative previste per i conducenti che violano le norme del Codice stradale. Vi si stabilisce che per il cosiddetto “patentino” siano applicabili tutte le regole sinora seguite per la vera patente di guida, ossia le sanzioni accessorie del ritiro, della sospensione, della revoca. Come è noto, in precedenza, il certificato di idoneità alla guida dei ciclomotori, dei tricicli e quadricicli leggeri - conseguibile a 14 anni con il solo esame scritto – non era soggetto ad alcuno dei procedimenti amministrativi stabiliti per le vere patenti di guida (A, B, C e D), né era prevista una sua scadenza di validità.

    Ma la vera novità si leggeva nel secondo comma dell’art.219 bis: “Se il conducente è persona munita di patente di guida, nell'ipotesi in cui, ai sensi del presente codice, sono stabilite le sanzioni amministrative del ritiro, della sospensione o della revoca della patente di guida, le stesse sanzioni amministrative accessorie si applicano anche quando le violazioni sono commesse alla guida di un veicolo per il quale non è richiesta la patente di guida. In tali casi si applicano, altresì, le disposizioni dell'articolo 126-bis".

     Si trattava di una classica “norma di chiusura”, per la quale i soggetti titolari di patente di guida erano soggetti alle sanzioni amministrative accessorie (ritiro, sospensione, revoca licenza di guida, decurtazione punti) anche in conseguenza delle infrazioni commesse conducendo un veicolo per il quale non è necessaria la patente di guida.  In pratica i diretti  e pressoché unici destinatari della norma risultavano essere i ciclisti[9], in quanto conducenti di veicolo senza obbligo di patente.  Le conseguenze potevano essere importanti: si consideri il caso di chi conduca ubriaco il velocipede e che – ipotizzando una guida in stato di ebbrezza in terza fascia sanzionatoria [art. 186  CdS, lett. c)] – può andare incontro ad una sospensione della patente da uno a due anni. Così il ciclista che impegna l'incrocio senza rispettare il semaforo rosso, se è titolare di patente, rischiava una decurtazione di 6 punti (12, se neopatentato).

    La novella normativa suscitò vivacissime e stizzite reazioni da parte dei possessori di biciclette, sia a livello di singoli[10] che di associazioni sportive e ambientaliste. Si  parlò di discriminazione, di “diritto alla resistenza” contro una legge iniqua, di atteggiamento punitivo verso una categoria ecologicamente benemerita, che andava semmai incentivata, e sin dai primi casi di applicazione della norma si moltiplicarono i ricorsi ai giudici di pace.    Già poco più di un mese dopo l’entrata in vigore del 219 bis,  uno dei parlamentari relatori della Commissione Lavori pubblici del Senato al lavoro sul disegno di legge sulla  sicurezza stradale (poi approvato un anno dopo) anticipava l’intenzione di eliminare la norma contestata, considerata a rischio di incostituzionalità per la disparità di trattamento fra ciclisti in possesso o meno di patente di guida, una disparità rilevata ma “che era stata spinta in un angolo dalla fretta di approvare il pacchetto sicu­rezza.”[11]

  Anche la Cassazione ebbe ad esprimersi negativamente sull’applicazione del secondo comma dell’art.219 bis CdS. Nella sentenza sul ricorso presentato dal conducente di un ciclomotore condannato per guida in stato di ebbrezza e per il rifiuto di sottoporsi all’accertamento del tasso alcolemico alla sospensione per un anno della patente di guida, oltre che a tre mesi di arresto e a 1400 euro di multa, la Suprema Corte – preso atto che quel tipo di ciclomotore poteva essere condotto “senza alcun titolo abilitativo” – ribadiva che “questa Corte di legittimità ha ripetutamente affermato (Cass. S.U. 30.1.2002 n 12316; Cass. 21.9.2005 n. 45669; Cass. 18.9.2006 n 36580) che non può essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, conseguente per legge a illeciti posti in essere con violazione delle norme sulla circolazione stradale, a colui che li abbia commessi conducendo veicoli per la cui guida non sia richiesta alcuna abilitazione.”[12] 

    Nell’estate del 2010 il legislatore è nuovamente intervenuto in materia di sicurezza stradale approvando la legge n.120, entrata in vigore il 13 agosto 2010 con l’ennesima modifica di decine di articoli del Codice della strada, a conferma di un approccio politico che continua a dimostrarsi confuso, ondivago e privo di una visione strategica coerente. 

    Se da una parte il testo normativo (artt. 14 e 28) contiene un netto inasprimento del trattamento sanzionatorio per i conducenti di ciclomotori e di quadricicli leggeri (c.d. “minicar”), per quanto concerne le biciclette si registra una sorta di vera e propria “marcia indietro”. Infatti, il tanto contestato secondo comma dell’art. 219 bis è stato – sic et simpliciter – abrogato dall’art.43 della legge 120/2010, articolo che ha anche soppresso l’obbligo di indossare il casco per i minori di 14 anni, precauzione che torna ad essere facoltativa per tutti i ciclisti, adulti e minorenni, in contrasto con quanto da tempo auspicato da più parti.  Non è dato sapere se si sia trattato della semplice correzione di uno “svarione” normativo o invece della conseguenza mirata di un’azione di lobbyng  o comunque di pressione da parte della (numerosa) categoria interessata.

      

4. Il secondo comma dell’art.219 bis CdS,  "incidente di percorso" od occasione mancata?

 

    La legge 120/2010 ha dunque per ora posto termine a quello che può essere visto come un  tentativo di introdurre la previsione delle particolarmente temute ”sanzioni di status”[13] anche per i ciclisti resisi responsabili di violazioni di una certa gravità.

    Ma - in rapporto a questa contraddittoria vicenda - è ragionevole parlare del venir meno di una “persecuzione” dei ciclisti, delle conseguenze paradossali di un errore del legislatore, oppure ci si trovava di fronte ad un prima, seppur confusa  iniziativa per portare maggiore disciplina in una classe di utenti troppo spesso ostentatamente indifferenti alle regole della circolazione stradale?

   In realtà una corretta lettura sistematica evidenzia come il recente intervento non costituisca un dato abnorme, ma piuttosto il logico completamento del quadro sanzionatorio destinato a colpire chiunque, nella conduzione di un veicolo, trasgredisca le norme stradali.

   Infatti, negli orientamenti della giurisprudenza la responsabilità del ciclista è considerata per molti versi del tutto analoga a quella di un conducente di auto o moto veicolo: non vi sono dubbi sulla riconducibilità della bicicletta al concetto di veicolo ed in tema di circolazione stradale la presunzione di pari responsabilità (ex art. 2054 c.c., II comma) trova applicazione anche nell'ipotesi di collisione tra autovettura e bicicletta,[14] con qualche perplessità solo nel caso della
bi
cicletta condotta a mano.[15]

   Così anche la fattispecie della guida in stato di ebbrezza trova piena applicazione nel caso di chi conduce un velocipede con un alcolemia superiore ai limiti di legge. Come è stato argomentato nella motivazione della sentenza di un giudice di merito che ha condannato un ciclista coinvolto in un sinistro stradale con un tasso alcolemico di oltre cinque volte superiore ai limiti di legge:

“Del tutto priva di pregio è poi l'ulteriore tesi, sostenuta dalla difesa dell'imputato, secondo la quale la norma incriminatrice relativa alla guida in stato di ebbrezza non trova applicazione per i ciclisti. È vero soltanto - ma è cosa all'evidenza ben diversa - che in caso di guida in stato di ebbrezza di una bicicletta (veicolo per la cui guida non è prevista patente alcuna) non può essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.”[16]

   Ora, la filosofia delle sanzioni accessorie della sospensione della patente o della riduzione dei punti è quella di inibire temporaneamente o di “intimidire” (costringendo ad una particolare diligenza e vigilanza) un guidatore che si è dimostrato non rispettoso delle regole della circolazione e, nel caso di abuso di alcolici o droghe, particolarmente pericoloso.

   In realtà, a nostro parere, la condotta dell’utente stradale in rapporto alle regole che disciplinano la circolazione (il cui fine ultimo, ricordiamolo, è la tutela della sicurezza negli spostamenti e della stessa civile convivenza in un ambiente particolarmente rischioso) non può essere valutata in segmenti fra loro separati, ma in un continuum che collega i diversi ruoli che lo stesso individuo può, di volta in volta, ricoprire in momenti diversi. In altri termini: è difficile credere che l’atteggiamento psicologico che ha portato un conducente di velocipede a commettere gravi trasgressioni scompaia totalmente in un istante, quando la stessa persona si pone alla guida di un autoveicolo. Inoltre, posto che comunque la legge non ammette ignoranza, la trasgressione posta in essere dal ciclista in possesso di patente deve considerarsi intrinsecamente più grave, dato che egli ha necessariamente ricevuto una preparazione specifica e approfondita sulle regole della circolazione stradale.

   In linea di principio ci sembra  giusto che chi ha dimostrato scarso o nessun rispetto per le norme del traffico subisca limitazioni o interdizioni relative all’autorizzazione (se la possiede) a condurre veicoli di categoria superiore (e quindi potenzialmente più pericolosi) indipendentemente dal contesto in cui si è verificata  l’infrazione, dal momento che essa comunque ha avuto luogo. Tanto più trattandosi di misure fortemente connotate in senso preventivo, dissuasivo ed addirittura pedagogico: attraverso il meccanismo del punteggio negativo, il possesso della patente di guida non costituisce più uno status acquisito in via più o meno definitiva, ma una condizione revocabile che va mantenuta osservando una condotta adeguata ed eventualmente riacquisita frequentando corsi o sostenendo nuovamente esami. Simmetricamente, la funzione di “rinforzo positivo” viene incentivata mediante l’accredito automatico di due “punti patente” per ogni biennio di guida virtuosa.

 

5. Per un ciclismo responsabile

 

   All’esito di questo ripensamento del legislatore ed a prescindere dalle valutazioni di merito sulla disposizione soppressa, rimane il problema di promuovere una mentalità più responsabile in una categoria tanto numerosa come quella dei guidatori di velocipedi.

    Se riproporre sanzioni accessorie come quelle abrogate appare inopportuno - anche per i dubbi sui profili di incostituzionalità – forse la strada più proficua sarebbe quella di interventi normativi miranti ad elevare i requisiti di sicurezza. Fra questi vi potrebbero essere l’individuazione di una soglia di età minima (12 anni?)  per condurre la bicicletta nella viabilità pubblica e l’obbligo del casco per tutti i ciclisti. L’introduzione di un “patentino” per il ciclista – in linea di principio a nostro parere sostenibile – si scontra nella realtà con difficoltà pratiche e burocratiche senza dubbio rilevanti e – più che una certificazione formale obbligatoria – potrebbe costituire un traguardo formativo da perseguire tramite corsi di educazione stradale nella scuola dell’obbligo. Si tratta in realtà di un obiettivo già da tempo previsto dalle politiche di sicurezza ma assai poco attuato, nonostante le lodevoli iniziative di molte amministrazioni locali.[17]

  Infine l’associazionismo – tanto fiorente fra gli amanti delle due ruote – è certamente in grado di apportare un importante contributo alla crescita di una cultura della sicurezza stradale, impegnandosi con maggior decisione nella sensibilizzazione degli iscritti pure in tema di doveri, oltre che di diritti, magari ricorrendo all’adozione di un codice di autoregolamentazione, senza dubbio di valore simbolico significativo, sul piano della comunicazione. Purtroppo i codici di condotta - già definiti e riconosciuti da importanti organizzazioni ciclistiche di altri Paesi europei[18] - in Italia per ora sono stati sporadicamente proposti a livello progettuale soltanto nell’ambito del “ciclismo fuori strada” o mountain bike.[19]   Eppure è una via da percorrere, se si vuole promuovere una cultura della mobilità realmente rispettosa non solo dell’ambiente, ma anche di una legalità stradale valida per tutti.

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

[1] LOMBROSO C., Delitti vecchi e delitti nuovi, Bocca, Torino, 1902, p.293.

 

 

[2] Ibidem, p.300.

 

 

[3] L'art.3 Cds (definizioni stradali e di traffico), n.53-bis descrive in termini “aperti” ciò che si deve intendere per “utente debole della strada”: “pedoni, disabili in carrozzella, ciclisti e tutti coloro i quali meritino una tutela particolare dai pericoli derivanti dalla circolazione stradale”. La locuzione “utenza debole” compare anche alla lettera F-bis dell’art.2, comma 3 del Codice (definizione e classificazione delle strade). A parere di chi scrive,  per quanto concerne i ciclisti e i pedoni, si tratta di una definizione impropria e fuorviante, poiché – applicando un dato meramente fenomenologico che di per sé non costituisce  un elemento di “merito”, ossia la maggior vulnerabilità rispetto agli utenti “forti” (i conducenti di autoveicoli) –  rimuove completamente l'aspetto di responsabilità e iniziativa individuale disegnando un'immagine del tutto passiva e deresponsabilizzata di queste categorie. Meglio sarebbe, ad esempio, parlare di utenti “leggeri”.

 

 

[4] In particolare l’art. 50 CdS definisce con precisione i velocipedi o biciclette come  “veicoli a due o più ruote, funzionanti a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali o di analoghi dispositivi, azionati dalle persone che si trovano sul veicolo; sono altresì considerati velocipedi le biciclette a pedalata assistita, dotate di un motore ausiliario elettrico avente potenza nominale continua massima di 0,25 Kw  la cui alimentazione è progressivamente ridotta ed infine interrotta quando il veicolo raggiunge i 25 km/h o prima se il ciclista smette di pedalare”.

Per quanto riguarda le biciclette a pedalata assistita il Ministero dell’interno ha precisato che i veicoli che superano uno dei limiti prescritti debbono essere considerati ciclomotori, con tutte le conseguenze previste dal Codice (certificato di circolazione, targa, assicurazione obbligatoria, uso del casco, ecc.) E’ il caso delle biciclette elettriche, dotate di un acceleratore che distribuisce potenza indipendentemente dalla azione della pedalata.  Per quanto riguarda le dimensioni massime consentite ai velocipedi per la circolazione su strada, sono le seguenti: larghezza metri, 1,30; lunghezza 3, 00 metri ed altezza 2,20 metri.

 

 

[5] BISERNI G., Incidenti ai ciclisti, editoriale, in Il Centauro, 18 maggio 2009, p. 3.

 

 

[6] Precisamente, la prima critical mass si svolse a San Francisco, nel pomeriggio del 25 settembre 1992, con la partecipazione di 48 ciclisti anche se l'evento iniziò ad assumere l'attuale denominazione solo dal secondo incontro, il 30 ottobre dello stesso anno.

 

 

 

[7] A norma di legge, i velocipedi debbono essere muniti anteriormente di luci elettriche bianche o gialle, posteriormente di luci elettriche rosse e di catadiottri rossi; inoltre sui pedali vanno applicati catadiottri gialli e dispositivi analoghi debbono essere applicati sui lati del veicolo. Quanto al campanello per le segnalazioni acustiche,  deve avere un suono udibile sino a 30 metri di distanza.

 

 

[8] Una recente inchiesta realizzata dall'associazione Altroconsumo tramite osservazioni dirette effettuate nell'arco di una giornata all'esterno di edifici scolastici situati in 7 diverse località italiane (Roma, Milano, Parma, Pavia, Bergamo, Verona, Treviso) ha evidenziato un grandissimo numero di infrazioni stadali (ben 509, complessivamente) commesse dagli adulti che accompagnavano i figli a scuola. In non piccola parte dei casi si trattava di ciclisti (cfr. "A scuola di insicurezza", in Altroconsumo, novembre 2009, pp.46-47. 

 

 

[9] Ai sensi  dell'art.46 del Codice stradale,  si intendono per veicoli tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade, guidate dall' uomo.

 Dall'elenco presente nell'art. 47 del CdS, si deduce che, velocipedi a parte, gli altri veicoli per i quali non è richiesta alcuna licenza di guida sono i veicoli a braccia (carretti e simili) e i veicoli a trazione animale (per la cui conduzione l'art.115 CdS prevede l'idoneità psicofisica e l'età minima di 14 anni), evidentemente categorie a  carattere residuale.

Sull’argomento si veda diffusamente MAZZON, Carrettini, biciclette..: sono veicoli in ambito di responsabilità per circolazione stradale?  in Persona e Danno ( http://www.personaedanno.it/cms/data/autori ) 9 febbraio 2009.

 

 

 

[10] Riportiamo un passaggio rappresentativo dei contenuti di tantissimi messaggi apparsi nei blog e  nei newsgroup della Rete subito dopo l’approvazione del “Pacchetto sicurezza”:

  "Sono ciclista da 45 anni (i primi due avevo le rotelle...)Trovo vergognoso omologare i ciclisti agli altri occupanti il suolo pubblico: c'è qualcuno che sa dirmi se è possibile rifiutarsi di consegnare la patente? Se io posso andare in bici senza licenze, perchè togliermi i punti dalla patente? E' palesemente una norma incostituzionale che discrimina tra i cittadini.    Che molti di noi ciclisti siano indisciplinati è vero. Che ci voglia un po' più di correttezza “anche” da parte nostra è vero. Ma ricordiamo che i ciclisti hanno un alto valore sociale, non inquinano, non causano la costruzione di nuovi parcheggi, non intasano quelli esistenti, non affollano i mezzi pubblici: forse che non dovrebbero essere trattati con un occhio di riguardo?
COSA POSSIAMO FARE PER NON FARCI CALPESTARE ANCORA?"

 

 

[11] Cfr. SALVIA L., Bici: sanatoria per i punti della patente, in  Corriere della Sera, 27 settembre 2009.

 

 

[12] Cass. penale, sez. IV, sentenza n. 19646/2010.

 

 

 

 

 

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