- Giurisprudenza
- Assicurazioni e responsabilità civile, Economia dei trasporti e della mobilità, Urbanistica, territorio e infrastrutture
- Dott.ssa Maristella Giuliano
Licenza taxi e reato di falso
Cassazione penale, sezione V - Presidente Fazzioli – Relatore Palla Pm Viglietta
sentenza n. 1070 del 10 gennaio 2008
Commette il reato di falsità ideologica in atto pubblico colui che al fine di conseguire la licenza del taxi dichiara di non avere a suo carico condanne penali irrevocabili, elemento richiesto come requisito morale. Al fine di evitare l’incriminazione non rileva addurre gli effetti della sospensione condizionale della pena ex art. 166 cp o il falso innocuo, in quanto in questione si discute di fede pubblica e dell’idoneità delle dichiarazioni ad ingannare la fede pubblica. Non rileva, quindi, l’uso del documento e dei suoi effetti.
Motivi della decisione Di F. Giuseppe, D. Sandro, N. Roberto, Di R. Bruno, F. Marco, P. Pietro e R. Graziano ricorrono, a mezzo dei rispettivi difensori, avverso l'ordinanza 1.2.07 con la quale il Tribunale del riesame di Roma ha confermato - in relazione ai reati di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, consistita nell'avere i prevenuti affermato falsamente, al fine di conseguire e/o mantenere illecitamente la licenza per l'esercizio del servizio taxi con autovettura, di essere in possesso dei requisiti di cui all'art. 9 del regolamento comunale (reato di cui all'art. 483 c.p., sub B), inducendo così in errore, mediante la presentazione di false, incomplete o mendaci dichiarazioni sostitutive di atto notorio, attestanti la presenza dei requisiti previsti dalla L n. 21/91 e dalla LR. n. 58/93, in riferimento alla assenza di precedenti condanne penali ostative al rilascio della predetta licenza, i funzionari del dipartimento 7^ del Comune di Roma e della CCIAA di Roma i quali iscrivevano gli indagati medesimi nei previsti ruoli e successivamente rilasciavano, sulla base della predetta illecita iscrizione, la licenza per l'esercizio del servizio taxi a soggetti in realtà privi dei requisiti previsti dalla legge (reato di cui agli artt. 48 e 480, sub D) - il provvedimento del G.i.p. di Roma del 5.1.07 di sequestro preventivo delle licenze per l'esercizio del servizio di taxi. D. Sandro deduce violazione dell'art. 606 lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 48-480 c.p., dal momento che era stata ignorata la circostanza della acquisizione di ufficio, da parte della Camera di Commercio, del certificato del casellario giudiziale recante, ex art. 688 c.p.p., l'annotazione della condanna condizionalmente sospesa e la conseguente necessaria valutazione operata dal p.u. della reale situazione del candidato all'iscrizione, che escludeva in radice la possibilità che fosse stato indotto in errore dalla falsa dichiarazione del privato in ordine alle condanne riportate, per cui l'amministrazione comunale aveva legittimamente conferito la licenza nonostante la condanna, proprio in considerazione della sospensione condizionale della pena, ritenendo sussistenti i requisiti di moralità previsti dalla legge e dal regolamento. Doveva essere esclusa la sussistenza del “fumus delicti” in relazione ai reati rubricati, dal momento che il venir meno della configurabilità astratta del reato di cui agli artt. 48-480 c.p. - si osservava con il secondo motivo - incideva sul nesso strumentale tra il reato di falso ideologico ex art. 483 c.p. ed iscrizione a ruolo prima e rilascio della licenza taxi in seguito. N. Roberto lamentava come il tribunale si fosse limitato alla constatazione del dato oggettivo della falsità di quanto autocertificato da una miriade di soggetti in tempi diversi e in operatività del tutto autonoma e non coordinata, laddove invece l'indagine sull'elemento psicologico appariva fondamentale, avendo il ricorrente agito in presenza di errore scusabile rappresentato da una autocertificazione non corretta e resa in attesa della formalizzazione della riabilitazione dal reato di truffa, per il quale aveva riportato condanna a pena sospesa, per cui, in applicazione dell'art. 5 c.p., come “costituzionalizzato” a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 364/88, e della particolare complessità della normativa regionale di riferimento, appariva comprensibile come il N. potesse essere stato indotto ad un errore in buona fede. P. Pietro e Di R. Bruno reiteravano “in primis” la censura di nullità, lamentata in sede di riesame ex art. 178 comma 1 lett. c) c.p.p., del sequestro operato, in riferimento agli artt. 370 comma 2 e 365 commi 1 e 2 c.p.p., in quanto all'atto dell'esecuzione delegata del provvedimento gli operanti avevano omesso sia l'avviso di cui al comma 2 dell’art. 365 c.p.p. (possibilità dell'assistenza del difensore al compimento dell'atto) che la previa comunicazione della nomina del difensore d'ufficio già designato dal p.m. con atto separato. Nel merito si censurava la violazione dell'art. 166 c.p. che stabilisce come la sospensione condizionale della pena non può costituire di per sé sola motivo di diniego di concessioni, licenze ed autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorative, per cui, ove anche la condanna a pena sospesa, riportata dal P. , fosse stata conosciuta dall'amministrazione, non avrebbe potuto portare ad un provvedimento amministrativo di diniego. Il fatto attribuito agli indagati doveva quindi ritenersi penalmente insussistente, per inidoneità dell'azione a ledere l'interesse tutelato dalla genuinità dei documenti, cioè la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico. Di F. Giuseppe deduce contraddittorietà della motivazione dal momento che egli aveva riportato sì due condanne, ma a pena patteggiata, per cui i reati di ricettazione e furto, dopo cinque anni, si erano estinti ed erano cessati gli effetti penali, con efficacia anche in riferimento al procedimento, come quello in esame, dinanzi alla pubblica amministrazione, per cui, anche sotto il profilo psicologico era assente il “fumus delicti”, ricorrendo l'ipotesi di ignoranza di legge per errore scusabile. F. Marco, infine, evidenziava l'illegittimità dell'ordinanza impugnata per non aver tenuto conto che il sequestro preventivo era caduto non su un bene privato o un oggetto disponibile, ma su un provvedimento amministrativo emesso da un ente pubblico territoriale, come il Comune di Roma, e pertanto oggettivamente non assoggettabile a tale misura, peraltro ai danni di un privato. Non aveva senso - evidenziava il ricorrente - qualificare la licenza sequestrata come “cosa pertinente al reato” oppure “corpo di reato”, poiché un provvedimento amministrativo non può essere considerato una “cosa” in senso giuridico e quindi “corpo di reato” e al giudice ordinario non è consentito revocare, sospendere o disapplicare atti amministrativi, la cui cognizione è riservata alla stessa autorità amministrativa in sede di autotutela o al giudice amministrativo in sede di impugnazione. Di conseguenza erano insussistenti anche i presupposti della cautela ed andava inoltre considerato che essendo diverse le procedure dirette ad ottenere il rilascio della licenza taxi e l'iscrizione al ruolo di tassisti a noleggio con conducente ed essendo la dichiarazione stata resa dal F. alla CCIAA, cioè nella procedura diretta ad ottenere l'iscrizione all'albo dei conducenti e non nelle attestazioni prodotte per perfezionare la voltura della licenza a proprio nome, non era pertinente quanto sequestrato, in quanto la licenza era stata rilasciata nel pieno rispetto delle leggi vigenti. Si osservava infine che la condanna iscritta al casellario giudiziale a carico del F. era assistita dal beneficio della non menzione, per cui in ogni caso il prevenuto avrebbe ben potuto produrre un certificato penale con la dicitura “nulla risulta” e non era quindi configurabile il reato di cui all'art. 483 c.p., reato peraltro istantaneo, la cui natura non consentiva l'adozione di un provvedimento di sequestro essendo ormai cessata la condotta delittuosa. R. Graziano, da ultimo, depositava il 21.9.07 rinuncia al mezzo di gravame essendo stato revocato il sequestro della sua licenza taxi, in data 21.7.07, dal g.i.p. Il ricorso presentato dal R. deve essere dichiarato inammissibile, per sopravvenuta rinuncia al mezzo di gravame, ma poiché tale rinuncia è stata motivata da sopravvenuta carenza di interesse a seguito della revoca del provvedimento di sequestro, con conseguente restituzione della licenza per conduzione di taxi, tale fatto comporta che a carico del ricorrente non possono essere poste né spese né sanzioni, non essendo individuabili a suo carico profili di colpa correlati alla irritualità dell'impugnazione. Gli altri ricorsi devono essere rigettati. Gli indagati hanno infatti autocertificato, nella consapevolezza della responsabilità e delle pene stabilite dalla legge per le false attestazioni e le mendaci dichiarazioni (art. 47 del D.P.R. n. 445/2000), come chiaramente emerge dalle stesse dichiarazioni rese da ciascun indagato ed acquisite dalla p.g., di non avere precedenti penali, laddove Di F. Giuseppe ha riportato due condanne a pena patteggiata per ricettazione e furto aggravato in concorso; D. Sandro, condanna a pena patteggiata per appropriazione indebita continuata in concorso e uso illecito di carte di credito; N. Roberto, condanna, con sentenza divenuta irrevocabile il 15.12.03, per falso ideologico commesso da privato in atto pubblico e truffa; Di R. , condanna per falsità materiale in scrittura privata; F. , condanna per furto militare; P. , condanna per tentato furto pluriaggravato in concorso. Tali oggettive false dichiarazioni fidefacenti sono state finalizzate a conseguire e/o mantenere illecitamente la licenza per l'esercizio del servizio taxi con autovettura, in quanto destinate a provare il possesso dei requisiti morali specificati dall'art. 17 della L.R. n. 58/93, oltre che dall'art. 9 del regolamento comunale, approvato con delibera consiliare n. 214/98, che prevede, tra l'altro, l'assenza di condanne irrevocabili per una serie di reati, espressamente indicati, ritenuti ostativi. Sussistente deve pertanto ritenersi il “fumus delicti” con riferimento ai reati di falso evidenziati dal tribunale, essendo inoltre indiscussa l'ostati vita delle condanne riportate dai ricorrenti ai fini del conseguimento o del mantenimento della licenza. Circa la doglianza del D. della non configurabilità dei reati in esame, per essere le determinazioni dei pubblici ufficiali risultate ancorate ad autonomo accertamento della reale situazione del candidato, attraverso l'acquisizione di ufficio del certificato del casellario giudiziale recante l'annotazione di condanna a pena condizionalmente sospesa, va evidenziato che l'attestazione al p.u. di circostanze non veritiere in una dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, integra il reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico, anche nel caso in cui quanto dichiarato possa essere altrimenti verificato dal successivo destinatario dell'atto, dovendosi escludere in tale ipotesi la configurabilità del cd. “falso innocuo”, atteso che l'innocuità del falso in atto pubblico non va intesa con riferimento all'uso che si intende fare del documento - che non è necessario ad integrare la condotta incriminata, e può altrimenti integrare estremi di reato diverso -, ma solo se si esclude l'idoneità dell'atto falso ad ingannare comunque la fede pubblica (Cass., sez. V, 30 settembre 1997, Brasola, in Cass. pen. 1999, p. 856). Quanto all'elemento soggettivo, con riferimento alla censura avanzata dal N. , poiché il dolo integratore del delitto di falsità ideologica di cui all'art. 483 è costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, correttamente il tribunale - sempre con riferimento al “fumus” - ha evidenziato l'assenza della buona fede per avere gli indagati dichiarato, in una autocertificazione nella quale si ammoniva lo scrivente delle conseguenze anche penali per quanto falsamente affermato, di trovarsi in possesso di requisiti che essi pacificamente non avevano, senza che il N. - osserva questa Corte - possa poi invocare l’”errore scusabile”, dal momento che, come lo stesso ricorrente ha esplicitato nella parte finale del proprio ricorso, allorché egli ha prodotto la autocertificazione “non corretta”, per il reato per il quale aveva riportato condanna irrevocabile non era intervenuta ancora la riabilitazione, circostanza a lui ben nota per averne fatto in precedenza richiesta. Circa la censura in rito, reiterata nei rispettivi ricorsi da P. e Di R. , con una motivazione in fatto, incensurabile in questa sede, il tribunale ha rilevato come sia emerso (in particolare dall'annotazione di p.g.) che la p.g. incaricata di eseguire il decreto di sequestro preventivo “de quo” ed il decreto del p.m. 8.1.07 contenente anche l'informazione di garanzia e la nomina del difensore di ufficio, non sia stata posta in grado di dare l'avviso al P. di farsi assistere dal difensore e di comunicargli la nomina di quello d'ufficio già designato, proprio per essersi il predetto allontanato, nel corso dell'operazione stessa, dalla propria abitazione, tanto che gli avvisi di rito sono stati eseguiti il giorno successivo, dopo la compiuta identificazione, non avvenuta in precedenza proprio per essersi il P. allontanato dal domicilio, non rendendo in tal modo possibile l'espletamento di detti incombenti, di cui pertanto il medesimo non può dolersene per dedurre violazione dell’art. 178, lett. c). Il Di R. , poi, sul punto ha sostenuto che il tribunale avrebbe meramente affermato il pieno rispetto delle garanzie difensive di cui all'art. 365 c.p.p., laddove invece i giudici del riesame hanno specificamente indicato come in atti (pagg. 1839-1843) siano rinvenibili gli avvisi di rito dati all'indagato, contestualmente all'esecuzione del decreto di sequestro preventivo e del decreto del p.m. contenente anche l'informazione di garanzia, specificando come il Di R. si sia riservato la nomina del difensore di fiducia. Né può sostenersi essere quella del tribunale una motivazione apparente per non avere affrontato espressamente la “quaestio iuris” del rapporto tra l'art. 166 c.p., che non consente che una condanna a pena sospesa possa costituire di per sé sola motivo per il diniego di concessioni, licenze e autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorative, e l'art. 17 della L.R. n. 58/93, che prevede come ostativa alla licenza di taxi la condanna per una serie di reati (tra cui, per il P. , quella per furto tentato commesso il 10.6.72 e per il Di R. quella per il reato di falsità materiale commesso, in concorso, il 31.10.74), ovvero di averla erroneamente risolta senza ritenere l'insussistenza penale del fatto per essere stata l'accertata falsità inidonea in concreto a ledere l'interesse tutelato dalla genuinità dei documenti, non avendo conseguito uno scopo antigiuridico a motivo della legittimità amministrativa del provvedimento di iscrizione a ruolo e della relativa licenza, versandosi in ipotesi di condanna a pena condizionalmente sospesa che, anche laddove conosciuta dall'amministrazione, non avrebbe potuto fondare di per sé sola - cioè mediante un denegato sfavorevole automatismo “ex titulo” sancito dall'art. 17 comma 3 lett. c) L.R. cit. - un provvedimento amministrativo di diniego. Sul punto, infatti, i giudici del riesame hanno sostenuto l'irrilevanza della questione, con riferimento all'elemento materiale del reato, per essere risultate le dichiarazioni presentate dagli indagati tutte oggettivamente false, con riferimento all'inesistenza di sentenze di condanna, finalizzate a dimostrare il possesso dei requisiti morali previsti dalla legge per il rilascio ed il mantenimento delle licenze, per cui tutte le questioni relative agli effetti del beneficio della sospensione condizionale della pena ovvero all'estinzione del reato ex art. 167 c.p. ovvero ancora alla natura giuridica del ed. patteggiamento ed agli effetti della applicazione della pena su richiesta, non possono rilevare in sede cautelare per escludere il “fumus” del reato di falso sotto l'aspetto della inidoneità dell'atto falso ad ingannare comunque la fede pubblica, dal momento che si tratta di questioni demandate alla sfera riservata alla p.a. e non è rimasto accertato che una tale valutazione gli organi amministrativi preposti abbiano positivamente compiuto all'atto del rilascio delle licenze, dovendosi in ogni caso considerare, con riferimento al portato del comma 2 dell'art. 166 c.p., che sebbene tale norma debba essere interpretata nel senso di eliminare qualsiasi meccanismo di preclusione assoluta ed automatica che faccia riferimento ad una condanna a pena sospesa (e ciò, secondo le pronunce della Corte costituzionale, ord. 26 ottobre 1990, n. 510, in Giur. cost., 1991, p. 2928; Corte cost., ord. 16 marzo 1990, n. 135, ivi, 1990, p. 752), se non espressamente previsto dalla legge, tuttavia - sempre secondo i Giudici della Consulta - permane pur sempre la possibilità di apprezzare il significato specifico della condotta antidoverosa che ha portato alla condanna, per cui - par di poter concludere - la norma deve essere interpretata nel senso sì di eliminare qualsiasi meccanismo di preclusione assoluta ed automatica, ma non di impedire il discrezionale giudizio amministrativo in ordine al significato della condanna, giudizio che, nella specie, è stato invece impedito proprio attraverso le mendaci dichiarazioni rilasciate dai soggetti interessati, ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000, in sede di autocertificazione, dichiarazioni che, infine, sono da ritenere mendaci anche allorché con esse si attesti l'inesistenza di precedenti ostativi pur essendo nei confronti del dichiarante stata pronunciata sentenza di applicazione di pena su richiesta per taluno dei reati indicati come tali (v. Cass., Sez. V, 24 febbraio 2004, n. 13421, in C.E.D. Cass., n. 228021). In sede cautelare, inoltre, non può che venire in evidenza come i fatti ascritti agli indagati siano sussumibili astrattamente sotto le fattispecie penali indicate, non potendo la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del riesame o della Corte di Cassazione tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagine in ordine al reato oggetto di investigazione, dovendo invece limitarsi al controllo di compatibilita’ tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravita degli stessi (v. Sez. un., 23 febbraio 2000, n. 7, Mariano, in Cass. pen., 2000, p. 2225), come pure la sussistenza dell'elemento psicologico (Cass., sez. I, 4 aprile 2006, n. 15298, in C.E.D. Cass., n. 234212). Le considerazioni fin qui svolte valgono anche con riferimento ai motivi di ricorso proposti da Di F. Giuseppe e, parzialmente, da F. Marco, dovendosi solo da ultimo evidenziare come le “res” su cui è caduto il provvedimento cautelare reale (licenze per conduzione di taxi), costituiscano il prodotto dei reati contestati agli indagati. Il sequestro preventivo, infatti, non ha avuto ad oggetto - come censurato dal F. - un provvedimento amministrativo, cioè non si è inserito preventivamente in un procedimento amministrativo, sì da risolversi in una indebita invasione della sfera di attività della pubblica amministrazione, ma ha riguardato il risultato di una determinata attività, rappresentando il documento-licenza l'estrinsecazione di un atto illecito e quindi la “res” su cui è caduta la misura di cautela reale. Le licenze “de quibus”, costituendo il risultato di una attività criminosa, sono come tali confiscabili ex art. 321 comma 2 c.p.p., l'esigenza cautelare richiesta dalla legge per disporre il sequestro preventivo essendo ipotizzabile poi - venendo all'ultimo punto del ricorso del F. - anche per reati per i quali sia cessata la condotta (v. Cass., sez. IV, 12 febbraio 2004, n. 17635, in C.E.D. Cass., n. 228182; Cass., sez. II, 15 giugno 2006, n. 29160, ivi, n. 235185), e ciò perché vi sono conseguenze dello stesso reato che la misura cautelare è destinata ad evitare anche dopo che esso abbia esaurito il suo “iter”, come, nel caso in esame, la possibilità, per chi ha ottenuto la licenza attraverso le false dichiarazioni di cui si è fin qui trattato, di continuare a svolgere l'attività di conducente di auto pubbliche.
PQM
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso proposto dal R. Graziano per sopravvenuta carenza di interesse; rigetta gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Documenti allegati
- n_1070_del_10_gennaio_01.pdf 112 KB