- Giurisprudenza
- Illeciti penali
- Dott.ssa Maristella Giuliano, Dott.ssa Micaela Ercolani e Dott.ssa Tiziana Santucci
Non costituisce violenza privata impedire l'accesso alla rampa condominiale
Cassazione penale - Sezione V
Sentenza 2 maggio 2019, n. 26062 - massima a cura della Dott.ssa Maristella Giuliano
In base al principio di offensività, il delitto di violenza privata, di cui all’art. 610 codice penale, si concretizza nei casi in cui la violenza o la minaccia siano espresse in tali forme da limitare effettivamente la libertà individuale o ridurre sensibilmente la capacità del singolo di autodeterminarsi e di agire. Viceversa sono penalmente irrilevanti i comportamenti inidonei a limitarne la libertà di movimento, anche se costituiscono violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali. Nel caso di specie era stato impedito l’accesso alla rampa condominiale all’autovettura del soggetto passivo.
(…)
1. C.B., con il ministero del difensore, ricorre per l'annullamento della sentenza della Corte di appello di Lecce del 30 maggio 2018, che, in integrale riforma della sentenza del Tribunale di Brindisi del 23 marzo 2016, l'ha riconosciuto colpevole del delitto di violenza privata, per essersi parato dinanzi all'autovettura di L.G. impedendogli di uscire dalla rampa di accesso ai locali condominiali destinati a rimessa, e per l'effetto l'ha condannato alla pena di mesi quattro di reclusione.
2. L'atto di impugnativa consta di due motivi che deducono:
2.1. il vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 610 cod.pen., e il vizio di motivazione, sul rilievo che la Corte territoriale aveva omesso di considerare che non ogni forma di violenza o minaccia integra la fattispecie
di cui all'art. 610 cod.pen., ma solo quella idonea, sulla base delle circostanze concrete, a limitare la libertà individuale, intesa come perdita o riduzione sensibile della capacità di determinarsi ed agire secondo la propria volontà;
di modo che aveva reso una motivazione del tutto carente sotto il profilo della illustrazione degli elementi probatori suscettibili di dare conto della ineliminabile cifra di offensività del fatto e del pari della coscienza e volontà del soggetto agente di costringere la parte lesa a subire una limitazione della libertà morale;
2.2. il vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 603, comma 3- bis, cod.proc.pen., sul rilievo che l'appello proposto dal Pubblico Ministero avverso una sentenza di assoluzione avrebbe imposto la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale anche in caso mera riqualificazione giuridica
del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato.
1. Va preliminarmente rilevato che le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, non ancora massimata, ponendosi sulla scia della sentenza Sezioni Unite n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487, hanno ribadito che, anche dopo l'introduzione della norma di cui all'art. 603, comma 3-bis, cod.proc.pen., il giudice di appello ha l'obbligo di rinnovare l'istruttoria solo nel caso in cui intenda riformare in pejus la sentenza impugnata, basandosi esclusivamente su una diversa valutazione - rispetto a quella effettuata dal primo giudice - della prova dichiarativa che abbia carattere di decisività. Sicchè occorre riaffermare il principio di diritto secondo il quale il giudice di appello, in caso di riforma "in peius" della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa qualificazione giuridica del fatto che sia fondata sulla identica valutazione delle risultanze probatorie anche dichiarative, non è tenuto a procedere alla
rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale (Sez. 3, n. 973 del 28/11/2018 -
dep. 10/01/2019, S, Rv. 27457101)
2.Tanto evidenziato, deve darsi atto che la Corte territoriale cita correttamente la massima di orientamento secondo la quale, in tema di delitto di violenza privata, integra l'elemento della violenza la condotta di chi impedisca il libero movimento del soggetto passivo, ponendolo nell'alternativa di non muoversi oppure di muoversi con il pericolo di menomare l'integrità di altri, compreso l'agente (Sez. 5, n. 41311 del 15/10/2008, La Rocca, Rv. 242328), ma omette di considerare che tale indicazione direttiva non costituisce un assioma, ma deve essere letta ed applicata in connessione con il principio di diritto secondo il quale, ai fini dell'integrazione del delitto di violenza privata è necessario che la violenza o
la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della libertà di movimento o della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti che, pur costituendo violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali, si rivelino inidonei a limitarne la libertà di movimento, o ad influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà (Sez. 5, n. 1786
del 20/09/2016 - dep. 16/01/2017, Panico, Rv. 268751; Sez. 5, n. 3562 del
09/12/2014 - dep. 26/01/2015, Lillia, Rv. 262848).
3. Alla luce di tali criteri ermeneutici emerge l'insufficienza della motivazione contrastata, che non ha indicato alcuna circostanza di fatto – in riferimento alle modalità e alla durata dell'accadimento - atta a denotare una significativa compromissione del processo di libera formazione della volontà del soggetto passivo suscettibile di ridondare in pregiudizio del bene giuridico tutelato, vale a dire la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione.
4. Per l'approfondimento sulle circostanze indicate, s'impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame alla sezione promiscua della Corte di appello di Lecce.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame alla
sezione promiscua della Corte di appello di Lecce.
Così deciso il 2/05/2019.