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Ordinanza-ingiunzione del Prefetto e obbligo di motivazione*in riferimento alle casistiche conseguenti alle infrazioni al Codice della Strada.

Di Gianmarco Poli

SOMMARIO: 1. La motivazione del provvedimento amministrativo.  2. Sull’obbligo di motivare l’ordinanza-ingiunzione.  3. Segue: l’omessa o carente motivazione dell’ordinanza prefettizia. Ripercussioni sull’atto.  4. La tutela giurisdizionale: l’oggetto del giudizio.  5. Giudizio sul rapporto e principio della domanda

 

 1. La motivazione del provvedimento amministrativo  

 La motivazione, che esprime in modo percepibile all’esterno il momento funzionale del potere amministrativo, riveste un ruolo centrale nella struttura del provvedimento, in quanto permette di conoscere quale sia l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’Amministrazione con quel determinato atto[1]. In passato, l’obbligo di motivare la determinazione provvedimentale adottata investiva solo quegli atti per i quali ciò fosse espressamente richiesto dalla legge. Al di là di tali casi, l’opinione prevalente in giurisprudenza era nel senso di estendere una simile prescrizione anche ai casi non contemplati dalle singole disposizioni normative, purché si trattasse di atti a carattere non generale, ma puntuale, ed a contenuto discrezionale[2]. La regola pretoria della motivazione necessaria in ragione della natura dell’atto reperiva un ancoraggio assiologico sia nei principi Costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), sia (e principalmente) nell’indispensabile esigenza di assicurare effettività e pienezza di tutela giurisdizionale ai soggetti nella cui sfera il provvedimento andava ad incidere (artt. 24, 103 e 113 Cost.)[3]. Attualmente, la legge sul procedimento amministrativo ha generalizzato l’obbligo di motivazione prevedendo, all’art. 3, che “ogni  provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed  il  personale,  deve  essere  motivato”. Sarebbero esclusi, in forza dell’enunciato di cui al secondo comma, unicamente gli atti normativi e quelli a contenuto generale: gli uni, perché, per la loro generalità e astrattezza, non sono normalmente idonei ad incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei destinatari, gli altri, in quanto indirizzati pur sempre a soggetti non individuabili a priori[4]. L’esclusione degli atti amministrativi lato sensu generali dal perimetro applicativo delimitato dall’art. 3, primo comma, dunque, non fa che tradurre in dettato normativo quella concezione invalsa nella giurisprudenza amministrativa, per cui la motivazione è funzionale, anzitutto, al controllo giudiziale del provvedimento amministrativo. La summenzionata previsione eccettiva, in tal senso, non costituisce una deroga in senso proprio alla regola generale della obbligatorietà della motivazione, quanto, piuttosto, contribuisce ad individuarne il fondamento razionale. Secondo la lettura più accreditata dell’ampia previsione di legge, infatti, ambedue gli enunciati normativi sarebbero espressivi di un'unica ratio, sicché la stessa esenzione contemplata nel comma 2, non sarebbe se non la proiezione in negativo delle ragioni di carattere processuale su cui si fonda la stessa introduzione massificata del dovere di motivare tutti i provvedimenti individuali[5]. Questa consapevolezza ha indotto parte della giurisprudenza a propendere per una interpretazione ed applicazione della legge che fosse sgravata dai condizionamenti del testo, consentendo una rimodulazione del nucleo precettivo della norma in esame, più aderente alle ragioni di garanzia individuale che hanno caratterizzato (e caratterizzano) l’istituto della motivazione. Con il risultato di ridimensionare (ed in parte ampliare[6]) l’ambito applicativo della regola di necessaria motivazione, riappropriatasi del suo ruolo originario di garanzia sostanziale (e non solo formale) degli interessati. Una delle categorie di atti individuate dalla giurisprudenza, per le quali la motivazione può ritenersi superflua, è quella degli atti scevri di discrezionalità, in particolare quelli cd. paritetici e quelli a contenuto interamente vincolato. I primi, poiché del tutto estranei alla fenomenologia del provvedimento, al quale testualmente si richiama il primo comma dell’art. 3[7]; gli altri -pur inquadrabili come declinazione del provvedere-, in quanto strutturalmente più “rigidi” e, dunque, meno idonei a veicolare scelte arbitrarie o irragionevoli dell’amministrazione. Rispetto agli atti vincolati, infatti, si tratterebbe unicamente di controllare che il contenuto trasfuso nel provvedimento risulti conforme allo schema legale prefigurato dalla norma attributiva del potere[8]. Un simile atteggiamento, nondimeno, è apparso esageratamente sbilanciato a favore delle esigenze di celerità e non aggravio dei mezzi procedimentali, per questo la giurisprudenza più recente ha corretto il proprio precedente orientamento a vantaggio di un miglior equilibrio tra economicità dell’azione pubblica e garanzia degli amministrati. Ciò si è reso possibile facendo sapiente applicazione del cd. principio di variabilità della motivazione, regola già elaborata dalla dottrina in epoca risalente e confermata dall’approvazione (e successive modifiche) della legge generale sul procedimento amministrativa, in ossequio alla quale l’atto amministrativo non può essere motivato seguendo uno schema astratto e costante, ma l’intensità dell’impianto motivatorio deve essere commisurato alla natura, al contenuto ed agli effetti del provvedimento cui accede[9]. Si è in tal modo pervenuti al convincimento che, nel caso degli atti vincolati, segnati da un ridotto tasso di conflittualità procedimentale, i confini dell’obbligo motivatorio dovessero naturalmente circoscriversi, risultando sufficiente, in chiave garantista, l’enunciazione di un iter argomentativo semplificato, una mera «giustificazione» della decisione concretamente adottata. Secondo questa giurisprudenza, più precisamente, a soddisfare l’obbligo in parola, basterebbe l’indicazione, contenuta nell’atto, dei presupposti di fatto e di diritto  acquisiti dall’amministrazione per addivenire alla determinazione finale, nonché il riferimento alle norme giuridiche applicabili alla fattispecie decisa[10]. E questo, anche laddove il privato abbia svolto un ruolo attivo nella dialettica procedimentale, formulando osservazioni in merito ai presupposti accertati dall’amministrazione. Come si legge in talune pronunce del giudice amministrativo, nelle ipotesi di attività vincolata, il dovere di motivare non comporta la necessità di una puntuale confutazione di tutte le argomentazioni svolte dalla parte privata, in quanto, per tale tipologia di atti, il compito della P.A. si riduce all’interpretazione e corretta applicazione di una norma di diritto[11].    

2. Sull’obbligo di motivare l’ordinanza-ingiunzione  

 Venendo ora al tema centrale della presenta disamina, va puntualizzato che, negli ultimi anni, si è palesata, assumendo dimensioni sempre meno trascurabili, una “questione motivatoria” che ha riguardato una particolare tipologia di atto amministrativo, la c.d. ordinanza-ingiunzione. Prendendo le mosse dal diritto positivo, si può osservare come l’art. 18, l.n. 689/1981 (nonché l’art. 204 C.d.s., per le infrazioni al codice della strada), richieda in forma espressa che l’ordinanza emessa dall’autorità competente sia motivata. Se ciò è vero, è altrettanto indubbio -come si chiarirà meglio nel prosieguo- che siffatta categoria di atti non rileva come attività provvedimentale autoritativa dell’amministrazione, bensì si traduce in atti paritetici (o comunque a contenuto prefissato dalla legge) i quali, in applicazione dei principi giurisprudenziali enunciati nel paragrafo precedente, non dovrebbero richiedere, per loro stessa indole, alcuna motivazione (o dovrebbero richiederne una semplificata). In mancanza di ulteriori precisazioni normative, una simile distonia ha fatto nascere il dubbio, tra gli operatori del diritto, su quale dovesse essere il ruolo da assegnare alla motivazione nell’economia del provvedimento ingiuntivo, e, di conseguenza, il significato da attribuire alle disposizioni succitate. L’opera di interpretazione giurisprudenziale e dottrinale, dunque, muovendo dall’esame delle caratteristiche strutturali e funzionali dell’ordinanza-ingiunzione, ha mirato a stabilire l’effettiva cogenza del dovere di motivare l’atto, provvedendo altresì ad individuare i contorni dell’onere stesso. Sul versante strutturale, sembra ormai acquisito che, dato identificativo del provvedimento sanzionatorio in discorso sia l’essere emanato nell’esercizio di un potere (a tutti gli effetti amministrativo) che esorbita ogni discrezionalità[12]. Se così non fosse, d’altro canto, sarebbe lecito dubitare della conformità a Costituzione di tutte quelle disposizioni di legge che espressamente individuano nel giudice ordinario il tribunale competente a conoscere il contenzioso sulle sanzioni pecuniarie (cfr. art. 22, l.n. 689/1981; art. 204-bis, C.d.s)[13]. Il giudice ordinario è giudice dei diritti, e dunque, quando parte della contesa sia una pubblica amministrazione, può essere chiamato in causa solo se a fronte di un atto amministrativo sia individuabile una situazione di diritto soggettivo[14]. Il che avviene, ordinariamente, quando il provvedimento “scippato” alla competenza del giudice amministrativo sia integralmente predisposto dalla legge e l’accertamento dei presupposti per la sua adozione realizzi un’attività meramente ricognitiva, priva di valutazioni complesse[15]. Valorizzando il dato processuale, si chiarisce un primo profilo di ordine sostanziale, quello che riguarda l’intensità ed i caratteri della motivazione dell’ordinanza prefettizia. Se questa è adottata nell’esercizio di poteri in tutto vincolati, si può concludere (richiamando le considerazioni sviluppate nel paragrafo precedente) che, quanto a consistenza dell’obbligo motivatorio, sia sufficiente che l’atto indichi, anche in modo succinto, l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto della violazione accertata. Una funzione adeguatrice del contenuto della motivazione si è riconosciuta anche alle finalità che animano il procedimento sanzionatorio (ed in particolare il quello demandato al prefetto). Data la natura para-contenziosa del potere di ordinanza-ingiunzione, che trova conferma in quei profili di ordine procedimentale che le norme summenzionate hanno regolamentato ad hoc, anche in difformità dalle regole comuni sul procedimento, non si è omesso di rilevare che l’oggetto della motivazione dell’atto applicativo di una sanzione amministrativa deve essere funzionale a consentire un’efficace difesa del cittadino, tanto in sede procedimentale quanto, soprattutto, in fase di opposizione all’ordinanza davanti all’a.g.o. Dal che la giurisprudenza più recente ha dedotto la regola secondo la quale, al di là del contenuto minimo consistente nella descrizione della condotta sanzionata e nell’indicazione dell’addebito contestato, la motivazione debba dare atto anche delle argomentazioni difensive eventualmente fatte pervenire dalla parte (mediante deduzioni scritte ovvero oralmente, in sede di contraddittorio procedimentale), rendendo esplicite le ragioni per le quali la pubblica autorità abbia ritenuto di disattendere le doglianze prospettate dal trasgressore[16]. A ciò si è aggiunto, sempre in ossequio al principio di massima garanzia per la difesa del cittadino, che l’obbligo di motivazione deve riguardare anche i tempi impiegati dall’amministrazione nelle singole fasi del procedimento, questo al fine di consentire una verifica puntuale circa il rispetto dei termini perentori (art. 18 l.n. 689/1981; artt. 203 e 204, C.d.s.) entro i quali deve essere emessa l’ordinanza-ingiunzione[17]. Si può dunque concludere che, alla stregua dell’ordinamento vigente, appaia chiaro l’intento di affermare, anche nell’ambito dei poteri sanzionatori, il valore fondativo della motivazione. Importanza che sembra ulteriormente suffragata da quel filone giurisprudenziale che esige dalla P.A. l’adozione di un impianto giustificativo “allargato” in funzione protettiva dei destinatari dell’ingiunzione. Quanto questa linea di tendenza sia sufficiente a garantire le ragioni di effettività e massimizzazione della tutela individuale che sono sullo sfondo dell’orientamento menzionato, è quanto si cercherà di esporre qui di seguito.    

 3. Segue: l’omessa o carente motivazione dell’ordinanza prefettizia. Ripercussioni sull’atto.  

Per comprendere la vera indole della questione e stabilire quale sia il peso della motivazione nella trama del procedimento ingiuntivo, occorre operare un ulteriore passaggio, osservando la fenomenologia dell’obbligo di motivare nella sua dimensione patologica. Una volta fissata la misura dell’adempimento procedurale, serve sapere quali siano le conseguenze giuridiche ricollegabili a quell’atteggiamento dell’Amministrazione che, disattendendo ai suoi doveri, ometta di motivare o motivi in maniera insufficiente, incongrua o contraddittoria, il provvedimento sanzionatorio adottato. La regola generale, valevole per tutti i provvedimenti amministrativi che devono contenere un’esplicita motivazione, è che l’atto carente di detto elemento sia considerato invalido, poiché emesso in violazione delle norme di legge impositive del relativo obbligo. Stessa sorte per l’atto provvedimentale solo formalmente motivato, in quanto connotato da una esposizione incompleta o illogica delle ragioni giustificative della decisione in concreto adottata. In tal caso il provvedimento, pur coerente con lo schema legale astratto, sarà viziato da eccesso di potere, per contrasto con il canone di ragionevolezza[18]. Per gli atti vincolati, tuttavia, il legislatore della riforma ha introdotto una particolare disciplina dell’invalidità, che ha interessato anche il vizio motivatorio. Si allude alla dequotazione dell’obbligo di motivazione a semplice vizio formale, oggetto di possibile sanatoria al opera del giudice, nel corso del giudizio amministrativo. La base giuridica che supporta un simile orientamento è contenuta nell’art. 21-octies della legge 241/90, laddove si prevede che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme  sul  procedimento  o  sulla  forma  degli atti qualora, per la natura  vincolata  del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo  non  avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Ad opinione della giurisprudenza amministrativa, si deve ritenere che, in materia di atti vincolati, il difetto di motivazione integri un’ipotesi di vizio procedurale (e dunque, formale), incapace per ciò solo di incidere sulla legittimità degli atti il cui contenuto precettivo non avrebbe potuto essere diverso[19]. Ma quid iuris nell’eventualità in cui incompleta risulti essere un’ordinanza-ingiunzione prefettizia? Facendo applicazione delle regole su enunciate, si dovrebbe ricavare che il provvedimento sanzionatorio, la cui motivazione presenti uno spessore qualitativo inferiore a quello in concreto richiesto, risulti viziato e, dunque, annullabile, salvo che la violazione perpetrata (trattandosi di atto vincolato) appaia manifestamente ininfluente sul suo contenuto. In realtà, la specificità della materia e le caratteristiche intrinseche della potestà sanzionatoria disciplinata dalla l.n. 689/1981 e dalle norme del Codice della strada, paiono legittimare una diversa conclusione. Anzitutto, come si legge in talune pronunce dei giudici civili, il vizio motivatorio, ove rilevato, darebbe luogo non alla semplice illegittimità dell’atto, bensì alla più radicale sanzione della nullità[20]. Ne deriverebbe, de plano, l’inapplicabilità della norma sull’illegittimità ininfluente, la quale circoscrive in modo esplicito il suo ambito di operatività ai vizi procedimentali che danno luogo alla sola annullabilità del provvedimento[21]. Secondo questa prima linea ricostruttiva, dunque, la garanzia del diritto di difesa del cittadino, attinto nel suo patrimonio da un atto dell’autorità prefettizia carente di motivazione, passa necessariamente attraverso il controllo della motivazione da parte di un organo terzo. Detto riscontro viene giudicato indispensabile al fine di consentire a chi riceve l’ingiunzione di verificare il rispetto della legge da parte della P.A. nello svolgimento della procedura amministrativa che ha portato all’applicazione della sanzione nei suoi confronti e di far valere eventuali violazioni della stessa che ne inficino la validità[22].    

4. La tutela giurisdizionale: l’oggetto del giudizio.  

Sul versante opposto si colloca l’opinione giurisprudenziale (quantitativamente maggioritaria) secondo cui le conclusioni poc’anzi illustrate, per ottenere accoglimento, dovrebbero trovare conferma nello statuto processuale dell’ordinanza-ingiunzione. Per la tesi in esame, intendere il vizio motivatorio come punto focale della difesa del ricorrente sarebbe un passaggio logico, concettualmente consentito, solo ammettendo che oggetto del giudizio di opposizione sia l’atto impugnato e non il rapporto sanzionatorio che da esso promana. In questa differente ottica ricostruttiva, dunque, il vero tema che occorre “pregiudizialmente” affrontare investe la natura dell’oggetto del giudizio di opposizione, al punto che la soluzione al quesito che si propone di indagare, relativo alla idoneità della motivazione (rectius, del difetto di motivazione) a concentrare su di sé le principali scelte difensive dell’opponente, non è che un corollario di quella questione, ritenuta principale[23]. È evidente, infatti, che ove si ritenesse il rapporto obbligatorio la vera materia del contendere in tema di opposizione, non potrebbe revocarsi in dubbio che i vizi attinenti all’atto impugnato perderebbero rilevanza ai fini del decidere, essendo devoluto alla cognizione piena del giudice dell’opposizione l’intero rapporto sanzionatorio. In questa ipotesi, il g.o. sarebbe dotato di tutti gli strumenti istruttori necessari ad accertare autonomamente e con pienezza di poteri la nascita del rapporto di credito, valutando non già la legittimità formale, ma la validità sostanziale del provvedimento sanzionatorio, attraverso l’esame autonomo della ricorrenza dei presupposti di fatto e di diritto della violazione. Ne consegue che, il difetto di motivazione, specialmente sotto forma di omessa o insufficiente valutazione da parte dell’autorità amministrativa delle difese del trasgressore, non integrerebbe un’ipotesi di illegittimità procedurale rilevante, ben potendo l’incolpato far valere integralmente le sue ragioni innanzi all’autorità giurisdizionale, anche mediante la riproposizione, in quel contesto, di tutte le deduzioni difensive non esaminate (o malamente valutate) in sede amministrativa. Per la dottrina e la giurisprudenza più recente, il propendere per questa soluzione è reso doveroso da una serie di indicazioni normative oltre che da ragioni di carattere sistematico e teleologico. In particolare, si è attribuita valenza determinante ai poteri riconosciuti al giudice dell’opposizione: l’art. 23 dalla l.n. 689/1981, consentendo al giudice civile di adottate una pronuncia dichiarativa dell’infondatezza della pretesa punitiva, nonché di incidere in senso repressivo sull’ordinanza, annullandola in tutto o in parte o modificandone, entro certi limiti, il contenuto, legittimerebbe la conclusione che oggetto del processo non è la misura ingiuntiva adottata ma la stessa pretesa sanzionatoria fatta valere dalla P.A.[24] A maggior conferma del predetto assunto, si è fatto anche leva sull’art. 28, l.n. 689/1981, il quale dispone che il diritto a riscuotere la somma dovuta per la violazione del precetto che è alla base dell’ordinanza deve essere fatto valere entro un termine quinquennale di prescrizione, decorrente dalla data di commissione del fatto[25]. Ulteriori argomenti a sostegno di questa tesi vengono prospettati dai giudici di legittimità, nei cui pronunciamenti si ricorda che asservire il giudizio di opposizione alla cognizione del rapporto sostanziale tra privato e P.A. meglio si concilia con la ratio del ricorso amministrativo al Prefetto, che è quella di deflazionare il contenzioso senza compromettere il diritto costituzionalizzato ad un processo giusto. Ad avviso delle Sezioni Unite, chiamate di recente ad intervenire sulla questione, opinare in modo contrario potrebbe indurre il trasgressore a percorrere la via giudiziaria pressoché sempre, strumentalizzando l’impugnazione dell’ordinanza-ingiunzione, anche per vizi motivatori irrilevanti (poiché solo formali) o presunti. Un simile automatismo provocherebbe, di per sé, un sensibile aumento del contenzioso, con il risultato che uno strumento di tutela in via amministrativa, alternativo e deflattivo, finirebbe, in concreto, per allungare i tempi processuali[26]. Del resto, nella prospettiva sposata dalla Cassazione, nella sua più autorevole composizione, le deduzioni proposte in sede di gravame amministrativo e riproposte di fronte al g.o., non perderebbero il proprio rilievo, assumendo valenza sotto il diverso profilo del difetto di motivazione su profili decisivi della sentenza che conclude il giudizio di opposizione[27]. In questo modo, seppure la motivazione della determinazione ingiuntiva si svuota del suo valore di strumento di garanzia dell’opponente, un simile passaggio non avviene a danno del diritto di difesa, in quanto il controllo sull’operato dell’Amministrazione si sposta dallo scrutinio estrinseco e formale della misura irrogativa della sanzione, al giudizio sull’operato del giudice, che dovrà dimostrare, attraverso la motivazione del provvedimento giurisdizionale, di aver correttamente accertato i presupposti di esistenza della pretesa creditoria della P.A., anche tenendo in debito conto le contestazioni sollevate dalla parte (e non esaminate) in sede amministrativa e riproposte al g.o. In applicazione dei concetti espressi, pertanto, la Corte non può non concludere affermando “il principio secondo cui i vizi motivazionali dell’ordinanza-ingiunzione non comportano la nullità del provvedimento, e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio susseguente investe il rapporto e non l’atto e, quindi, sussiste la cognizione piena del giudice che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa e in ipotesi non esaminate o non motivatamente respinte, se riproposte nei motivi di opposizione e decidere su di esse con pienezza di poteri sia che le stesse investano questioni di diritto o questioni di fatto”[28].  

   5. Giudizio sul rapporto e principio della domanda  

Le conclusioni cui perviene la teorica che individua nel rapporto obbligatorio l’oggetto del giudizio di opposizione, così come riportate in precedenza, seppur complessivamente condivisibili, necessitano, a parere di chi scrive, di un’opportuna precisazione. Come ormai acquisito alla scienza giuridica processuale, il processo ordinario di opposizione alla sanzione amministrativa, regolato dalla l. 24 novembre 1981 n. 689 (a cui il C.d.s., art. 194, fa esplicito rinvio in materia di contenzioso avverso le sanzioni pecuniarie irrogate in conseguenza di violazioni del codice stesso), ha natura civilistica e, per ciò solo, soggiace al principio della domanda (art. 112 c.p.c.)[29]. Siffatto principio, che ha la funzione di circoscrivere l’ordine dei motivi di gravame spendibili dal destinatario del provvedimento e l’ambito di cognizione del giudice, acquista un rilievo tanto più incisivo se, come suggerito da autorevole dottrina, la situazione sostanziale oggetto del giudizio è l’effetto prodotto da una fattispecie complessa di cui l’atto amministrativo è elemento indefettibile[30]. Da questa angolazione, l’obbligo di pagare una somma di danaro assume le fattezze di un effetto giuridico che si ricollega non all’effettiva esistenza dell’illecito amministrativo, ma si fonda sulla presenza di due presupposti concorrenti. Un primo presupposto, rappresentato dalla obiettiva violazione di un precetto per il quale una norma stabilisce una sanzione, ed un secondo elemento che ad esso deve essere necessariamente fare seguito: un atto amministrativo irrogativo della sanzione. Tale provvedimento riveste portata costitutiva (o di accertamento costitutivo), in quanto senza di esso la violazione del precetto non assume rilievo giuridico[31]. La mancanza di rilievo autonomo del fatto-illecito comporta che il destinatario della sanzione potrà far valere il proprio diritto a non essere sottoposto a sanzione, sia eccependo il difetto della fattispecie sostanziale (inesistenza di una norma punitiva o di un fatto storico idoneo a radicare la responsabilità, esistenza di fatti ulteriori che escludono la responsabilità, presenza di fattispecie estintive previste dalla legge, ecc.), sia aggredendo direttamente l’atto (per vizi -anche formali- del provvedimento o del procedimento), considerato come elemento terminale della fattispecie[32]. In questo modo, i vizi del procedimento o dell'atto, che siano idonei di per sé ad invalidarlo, si atteggiano ad elementi negativi (e dunque estintivi) del secondo presupposto del rapporto sanzionatorio, il cui accertamento (con conseguente caducazione dell’atto) impone di ritenere non prodotti gli effetti della fattispecie sanzionatoria e ritenere mai sorta la pretesa punitiva sella P.A.[33]  In questa differente prospettiva, dunque, l’ambito di cognizione riservato al g.o. è certamente più esteso, potendo il giudice dell’opposizione verificare, in astratto, tanto la legittimità formale, quanto la legittimità sostanziale del provvedimento sanzionatorio. Tale assunto, come anticipato poco sopra, deve, in ogni caso, essere coordinato con gli effetti processuali del principio della domanda. Suddetto principio, che ha l’effetto di delimitare la materia del contendere devoluta alla piena cognizione del giudice civile, vincola l’autorità decidente allo scrutinio dei soli presupposti individuati dalla P.A. con l’atto di contestazione e, fra questi, solo di quelli indicati dal ricorrente nell’atto di opposizione[34]. In questi termini, la regola della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, così come precluderà al giudice investito della controversia di rilevare officiosamente (salvo casi eccezionali) profili di invalidità dell’atto o la carenza di elementi della fattispecie sostanziale astrattamente rilevabili, sotto altro aspetto non consentirà al g.o. medesimo di disattendere le censure sollevate col ricorso, affermando, ad esempio, che il difetto di motivazione prospettato può essere superato da un accertamento autonomo dei presupposti costitutivi della pretesa patrimoniale, ancorché la mancanza di questi ultimi non abbia costituito oggetto di specifica contestazione della parte ricorrente. Come afferma la dottrina più recente, pur correndo il rischio collegato alla minor ampiezza delle doglianze prospettate, nulla impedisce all’opponente di aggredire l’ordinanza-ingiunzione soltanto sotto il profilo formale. Una simile condotta processuale, peraltro, risulterà l’unica in grado di preservare la sfera soggettiva dell’intimato, qualora costui sia realmente responsabile dell’infrazione contestata, consentendogli di limitare l’oggetto del giudizio alla validità dell’atto e di precludere al giudice la possibilità di calarsi nel merito della questione[35]. In questo caso, allora, fermo restando che non è l’atto ma il rapporto sostanziale nel suo complesso l’oggetto dell’impugnazione, la pronuncia dell’autorità giusdicente sarà circoscritta alla validità dell’ordinanza-ingiunzione, senza possibilità di estendersi al rapporto sottostante.  

 * Relazione tenuta dall’Autore al Convegno «Diritto alla difesa e violazioni del C.d.S.» svoltosi l’8 giugno 2010, presso l’Ordine degli Avvocati di Roma.      

----------------------------------------------------------------------------------------------------   [1] Cfr. V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2010, 396. [2] Ex multis, Cons. St., 9 giugno 1978, n. 737, in Cons. St., 1978, I, 1186; Cons. St., 6 aprile 1979, n. 180, in Foro amm., 1979, I, 622; Cons. St., 3 aprile 1979, n. 230, in Cons. St., 1979, I, 467; Cons. St., 28 luglio 1980, n. 748, in Foro amm., 1980, I, 1436. [3] Vedi BERGONZINI, Difetto di motivazione ed eccesso di potere, in Dir. amm., 2000, 183. Cfr. pure G. PASTORI, La legge generale sull'azione amministrativa, in AA.VV., Il motore immobile. Crisi e riforma della pubblica amministrazione, Roma, 1980, 28. [4] Nella dottrina tradizionale, A.M. SANDULLI, L'attività normativa della pubblica amministrazione, Napoli, 1970, 12. Per quella più recente, in questa prospettiva, A. ROMANO, Disapplicabilità di norme regolamentari (sfaccettature di un problema?), in Impugnazione e «disapplicazione» de i regolamenti, Torino, 1998, 116 ss.; G. della CANANEA, Gli atti amministrativi generali, Padova, 2000, 275. Cfr. però F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 2008, 1799, secondo il quale, quanto agli atti normativi, la scelta legislativa si giustifica in virtù della loro natura di fonti del diritto e, dunque, del loro carattere lato sensu politico. Ancor più radicale l’opinione di I. FRANCO, Il nuovo procedimento amministrativo. Commentario alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 3), Bologna, 1991, 44, che indica le ragioni dell’esclusione dell’obbligo di motivazione nel fatto che, in quei casi, non si tratterebbe di provvedimenti amministrativi. [5] Per una panoramica della dottrina e della giurisprudenza sul punto, M. COCCONI, L'obbligo di motivazione degli atti amministrativi generali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2009, 707 ss. [6] L'interpretazione finalisticamente orientata della deroga, infatti, ha consentito di ritenere operativo l'obbligo di motivazione per gli atti a contenuto generale immediatamente lesivi (nonostante la loro struttura giuridica) di posizioni soggettive: cfr. ad es. Cons. St., 13 luglio 1993, n. 711, in Cons. St., 1993, I, 860. [7] Si noti, a conferma di ciò, quanto disposto per effetto dell’art. 1, com. 1-bis, l.n. 241/1990 che rende applicabili agli atti di natura non autoritativa (ovvero gli atti paritetici) i principi e le regole del diritto privato. È opinione condivisa che, salvo il caso di esercizio di poteri privati (per i quali viene in rilievo un’analoga esigenza di controllo di coerenza tra il potere come concretamente esercitato e le finalità impresse al potere dalla legge), il principio generale dell’attività privata è che i motivi dell’atto sono irrilevanti. [8] Il carattere vincolato del provvedimento, nell’an e nel quomodo, esclude la configurabilità del vizio di difetto di motivazione per Cons. giust. amm. Reg. Sic., 15 gennaio 2002, in Foro amm. - C.d.S., 2002, 216. Cfr., altresì, Cons. St., 19 marzo 1992, n. 174, in Cons. St., 1992, I, 488 e TAR Toscana, 21 maggio 1999, n. 595, in Ragiusan, 2000, 192, secondo cui è sufficiente il richiamo alla norma che identifica il potere. [9] In dottrina, FALCON, Lezioni di diritto amministrativo, I, Padova, 2005, 55. Per la giurisprudenza, Cons. St., 15 aprile 1964, n. 322, in Cons. St., 1964, I, 782; Cons. St., 5 novembre 1993, n. 801, in Riv. giur. edil., 1994, I, 152; Cons. St., 27 settembre 1994, n. 739, in Cons. St., 1994, I, 1206; Cons. St., 4 febbraio 1997, n. 89, in Cons. St., 1997, I, 182; Cons. St., 29 aprile 2002, n. 2281, in Dir. e giust., 2002, 22. [10] Cons. St., 27 novembre 1998, n. 1637, in Cons. St., 1998, I, 1753. [11] In questo senso, Cons. St., 16 giugno 2003, n. 3380, in Foro amm. - C.d.S., 2003, 3010. [12] A. TRAVI, Sanzioni amministrative, in Enc. Dir., XLI, Milano, 1989, 399. [13] A. TRAVI, Sanzioni amministrative, cit., 400 ss. [14] Non sorprende, perciò, la qualifica di “diritto a non essere sottoposto a sanzione” che la dottrina riconosce alla situazione soggettiva nascente in capo al destinatario della misura ingiuntiva. Così, ad es., R. BELLÈ, Il processo di opposizione alla sanzione amministrativa, in Riv. Dir. Proc., 2002, 900 ss. [15] Confermativa di tale orientamento è la giurisprudenza della Suprema Corte: cfr. Cass., Sez. un., 25 novembre 1992, n. 12545, in Foro it., 1993, I, 2225; Cass., Sez. un., 22 aprile 1985, n. 2645, in Foro it., 1985, I, 1294. [16] In questo senso, Cass., 16 aprile 2008, n. 10043;  Cass., 16 novembre 2007, n. 23747; Cass., 13 aprile 2006, n. 8649, in Foro amm. - C.d.S., 2006, 2140; Cass., 13 gennaio 2005, n. 519, in Mass. Giust. Civ., 2005, 1; Cass., 24 novembre 1990, n. 11332, in Mass. Giust. Civ., 1990, 11. [17] Cass., Sez. un., 27 aprile 2006, n. 9591, in Foro it., 2006, I, 2019. [18] Così, ad es., Cons. St., 31 luglio 2000, n. 4217, in Giur. Bollettino legisl. tecnica, 2001, 146; Cons. St., 08 settembre 1995, n. 1295, in Giur. It., 1996, III, 1, 63. Di contrario avviso B. G. MATTARELLA, Il Provvedimento, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale a cura di S. Cassese, I, Milano, 2003, 877 che fa refluire nella violazione di legge anche l’ipotesi di carenza o incompletezza di motivazione. [19] In questo senso, di recente, Cons. St., 19 maggio 2008, n. 2277, in www.giustizia-amministrativa.it. [20] Cfr. Cass., Sez. un., 27 aprile 2006, n. 9591, cit. La scelta di optare per la nullità in luogo dell’annullabilità è spiegata in dottrina (R. BELLÈ, Op. cit.) come ricaduta del fatto che, in materia di provvedimenti sanzionatori, l'obbligo di motivazione sta a garanzia del diritto di difesa e non è finalizzato ad assicurare il controllo sullo sviamento o meno dell'atto dal fine pubblico cui esso è destinato. [21] E questo a tacere della questione, di portata più generale, circa la riconducibilità dell’ordinanza-ingiunzione alla categoria del “provvedimento”, con connessa applicabilità (o inapplicabilità) all’atto da ultimo menzionato, degli istituti pensati dalla l.n. 241/90 con specifico riguardo all’attività amministrativa di natura provvedimentale. [22] Vedi V. TALLINI, La carenza di motivazione dell’ordinanza-ingiunzione del Prefetto, in Riv. giur. circolazione e trasporti, n. 4, 2009. [23] In questo senso, ANDRIOLI, Il contenzioso civile delle sanzioni amministrative, in Dir. e giur., 1981, p. 773 ss. [24] Cfr. ANDRIOLI, Op. cit., p. 776 ss. [25] In questi termini V. SCALESE, Le opposizioni alle sanzioni amministrative, Milano, 2006, 128. [26] Così Cass., Sez. un., 28 gennaio 2010, n. 1786, in Mass. Giust. Civ., 2010, 113. [27] Cass., Sez. un., 28 gennaio 2010, n. 1786, cit. nonché Cass., 24 marzo 2004, n. 5891, in Mass. Giust. Civ., 2004, 3, secondo cui l’eventuale inadeguata valutazione da parte del giudice delle deduzioni difensive già prospettate davanti all’autorità intimante e da essa non valutate, rileva sotto il profilo di omesso esame di punti decisivi della controversia. [28] Cass., Sez. un., 28 gennaio 2010, n. 1786, cit. [29] Vd. R. VACCARELLA, Commento alla L. 24 novembre 1981 n. 689, in Nuove leggi civ. comm., 1982, 1129; F. LUISO, Il processo di opposizione, in Riv. giur. circ. trasp., 1983, 1; R. BELLÈ, Op. cit. [30] F. LUISO, Diritto processuale civile, IV, 2000, 275. [31] Cfr. Cass., Sez. un., 17 giugno 1988, n. 4131, in Foro it., 1988, I, 2193. Per R. BELLÈ, Op. cit., la mancanza di rilievo autonomo dei fatti dai quali la legge fa dipendere la sanzione amministrativa, in assenza di un provvedimento amministrativo che li faccia propri, si coglie anche dal fatto che: “il diritto di credito che può derivare da una fattispecie per cui è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria, non può essere fatto valere in un giudizio di cognizione dall'amministrazione che sarebbe titolare del credito, al fine di ottenere la condanna del responsabile al pagamento o per attivare una compensazione o altra situazione giuridica, perché è sempre necessario passare prima attraverso un atto che irroghi la sanzione”. [32] In questo senso, ex multis, Cass., 2 novembre 1998, n. 10911, in Mass. Giust. Civ., 1998, 2233; Cass., 19 maggio 1995, n. 5554, in Mass. Giust. Civ., 1995, 1039; Cass., Sez. un., 19 aprile 1990, n. 3271, in Foro it., 1990, I, 1510. Sul tema vd. anche il contributo di B. SASSANI,  Impugnativa dell'atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989, 227 ss. [33] Così R. BELLÈ, Op. cit. [34] F. LUISO, Diritto processuale civile, IV, 2000, 279. In giurisprudenza, Cass., 13 gennaio 2005, n. 519, cit.; Cass., 30 ottobre 2003, n. 16317. [35] V. SCALESE, Op. cit., 129 ss.