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Sicurezza stradale: il processo evolutivo del sistema sanzionatorio del Codice della Strada

Direzione Studi e Ricerche ACI

 

 Sicurezza stradale: il processo evolutivo del sistema sanzionatorio del Codice della Strada
Direzione Studi e Ricerche ACI
  E’ ormai sotto gli occhi di tutti che la sicurezza stradale costituisce uno dei principali nodi da sciogliere da parte dei Governi dei Paesi a motorizzazione avanzata, molti dei quali (vedi Francia/Inghilterra) hanno già messo da tempo nell’Agenda delle priorità (dedicandoci notevoli investimenti) l’obiettivo di ridurre drasticamente il numero delle vittime e degli incidenti stradali. Gli stessi Organismi internazionali, dall’O.N.U. alla U.E., indicano obiettivi di riduzione degli incidenti (per l’Europa, l’obiettivo è del 50% di decessi in meno entro il 2010) e forniscono orientamenti sulle azioni prioritarie da intraprendere. In questo contesto, non vi è dubbio che serva un impianto normativo (in termini di norme di comportamento)  equilibrato, che sappia coniugare le giuste esigenze di mobilità dei cittadini con la salvaguardia della vita umana e dell’ambiente e nello stesso tempo sia in grado di assicurare un sistema sanzionatorio equo e credibile (in quanto effettivamente applicato) e come tale condiviso sia da parte di chi deve far rispettare, che da chi debba rispettare le norme; un sistema dunque finalizzato prevalentemente a prevenire piuttosto che a reprimere; a formare, piuttosto che a informare il cittadino, ad un rapporto corretto con la strada e con l’ambiente circostante, garantendo altresì i legittimi mezzi di tutela. Tale sistema, se realizzato, non può che avere una funzione determinante nella quotidiana lotta agli incidenti stradali cui, in una ottica di responsabilità condivisa, tutte le componenti sociali ed istituzionali (dagli utenti alle forze dell’ordine, dalle associazioni rappresentative – quali l’ACI – alle Istituzioni, dagli operatori di settore, alle aziende, ai mezzi di comunicazione) sono chiamate a concorrere. Non v’è pertanto da stupirsi se la tendenza del legislatore di questi ultimi 20 anni, nell’attribuire al Governo la delega a riformare il Codice della Strada in vigore, abbia come priorità da perseguire quella della sicurezza stradale. In Italia, per inciso, il fenomeno conta a tutt’oggi 5.400 decessi l’anno, 300.000 feriti, 35 miliardi di euro, in termini di costi sociali (dati al 2005). Allo stato l’Italia dovrà scendere dal 2006 a 3.100 vittime l’anno, con un trend di diminuzione del 9% annuo per perseguire l’obiettivo comunitario. E’ evidente che, è difficile ipotizzare un risultato coerente con gli obiettivi che l’Europo si è data.Né in questa circostanza può consolarci il fatto che senza dubbio non saremo i soli in Europa a non perseguirli. Si ritiene utile, a questo punto, fare un breve excursus nell’evoluzione storica del diritto della circolazione stradale nel nostro Paese e partire dal Regio Decreto del ‘ 33  “Norme per la tutela della strada e per la circolazione”, per il quale, all’alba del boom della motorizzazione privata, obiettivo primario era la tutela e la promozione della circolazione stradale, passando per il Testo Unico del ‘ 59 che, con il crescere della motorizzazione, si concentrava in primo luogo sul regolamentare la circolazione (segnaletica, conduzione dei veicoli) indicando, in risposta elle esigenze della società del tempo, i comportamenti da adottare e valutando le violazioni degli stessi generalmente come fattispecie di reato (si pensi al divieto di sosta che assurgeva al grado di reato contravvenzionale).  Lo strumento della qualificazione penalistica delle violazioni in tema di circolazione stradale, ha imperato nel nostro Paese per più di 40 anni, modellando la mentalità e influenzando i comportamenti dei cittadini, tanto che nel comune gergo, elevare e ricevere una contravvenzione è ancora riferito alle sanzioni per la violazione delle norme sulla circolazione, anche se le stesse non assurgono più, in massima parte, ad essere qualificate come reati, seppure contravvenzionali. Tenendo conto che la qualificazione penale di un fatto, soddisfa l’esigenza di prevenzione generale e speciale dell’illecito e della sua reiterazione, l’impianto del Codice del ’59, in teoria, rispondeva alle esigenze di regolamentazione della circolazione, tutela del suo pacifico andamento e prevenzione degli illeciti ad essa connessi. Ma la Dottrina ha sviluppato, nel momento dell’applicazione, una forte tensione all’interno dell’Ordinamento giuridico, dovuta ad una serie di ragioni, in primo luogo la congestione del lavoro dei magistrati sovraccaricati da un numero sovrabbondante di procedimenti penali. Altra ragione è consistita nella diffusa esigenza di stabilire pene più equilibrate per le violazioni in materia di circolazione stradale, che spesso non erano percepite, sia dell’utente della strada che dagli operatori del diritto,  come fatti idonei a ledere gravemente l’ordine sociale e quindi punibili con misure penali. La qualificazione di un fatto come reato rappresenta, infatti, l’extrema ratio di tutela dell’Ordinamento per i risvolti pesanti che comporta, sia in termini di garanzie procedurali da adottare, che di conseguenze sulla liberta individuale. L’ipertrofia del diritto penale, con la conseguente sua ineffettività dovuta alle esigenze garantistiche nello svolgimento dei processi penali, alla notevole mole di ricorsi anche pretestuosi, e alla sempre più diffusa estinzione dei reati per prescrizione, hanno spinto il legislatore a trovare soluzioni alternative, ossia altri tipi di sanzione. Si è operata, quindi, una massiccia depenalizzazione di molte fattispecie penali, per lo più contravvenzionali, che in particolare hanno interessato quasi tutte quelle contenute nel Codice della strada del ’59 trasformandole in illeciti amministrativi. La fase della c.d. depenalizzazione ha abbracciato un periodo di circa 20 anni, anche se gli appuntamenti più importanti sono rappresentati dalla legge 689/ 1981 e dalle successive legge delega n. 205 del 1999 e dal d.lgs. n. 507/99. La sanzione amministrativa pecuniaria e le sanzioni accessorie hanno soppiantato in larga parte le misure penali. Numerose sono state le figure criminose oggetto di trasformazione in tema di circolazione stradale e quasi tutte, come già detto, di natura contravvenzionale. I reati esclusi dall’intervento di depenalizzazione sono contenuti negli artt. 100 comma 14 (delitto di falsificazione di targhe) 186 e 187 (contravvenzione per guida in stato di ebbrezza conseguente, rispettivamente, alla assunzione di sostanze alcoliche e di sostanze stupefacenti) e 189 (delitto di omissione di soccorso a seguito di incidente stradale) del “Nuovo Codice della Strada” del 1992 ( L. 285/’92) che, a seguito soprattutto degli interventi di depenalizzazione operati nel ’99, risulta un corpus normativo in cui si attualizza il principio giuridico del ricorso alla configurazione di fattispecie di reato come extrema ratio. Infatti le uniche ipotesi di reato della circolazione stradale esistenti nel nostro Ordinamento giuridico, alla soglia degli anni 2000, erano contenute oltre che nelle norme del CdS appena indicate,  anche in due norme del codice penale ( omicidio colposo per violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale e lesioni colpose personali). Ambedue le fattispecie sono ovviamente delitti. Per il resto il codice del ’92 ha depenalizzato tutte le sanzioni concernenti la guida senza patente, diversi comportamenti illeciti durante la circolazione, alcune fattispecie in materia di falsificazione e le sanzioni sull’autotrasporto. Parallelamente sono state introdotte, oltre all’inasprimento delle sanzioni amministrative pecuniarie, le sanzioni accessorie che per lo più colpiscono le patenti, per tentare di mantenere inalterato il livello di afflittività dell’impianto sanzionatorio conseguente alle violazioni delle norme della circolazione stradale. Questo è il risultato del lungo processo di rimaneggiamento dell’intera materia della circolazione stradale, così come scaturito dall’impianto normativo del codice del ‘92 e dai numerosi interventi di modifica intervenuti dal 1993 fino agli inizi degli anni 2000. Ma già dai primi anni del nuovo millennio, il Legislatore appare effettuare una repentina inversione di marcia rispetto all’iter normativo lungamente perseguito. Con la legge n. 214/2003 introduce l’art. 9 bis del CdS, che impone il divieto di gareggiare in velocità con i veicoli a motore e il divieto di organizzare competizioni non autorizzate, concepito come delitto, quindi con una portata sanzionatoria molto pesante (reclusione da 1 a 3 anni fino ad un massimo di 12 in caso di morte; da 5.000 a 20.000 euro di multa e nella seconda ipotesi da 25.000 a 100.000 euro) oltre alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione o revoca della patente. La ratio della norma è sicuramente quella di arginare il tragico fenomeno delle morti dovute alle competizioni non autorizzate, ma colpisce lo strumento della minaccia penale come se fosse il solo mezzo per raggiungere il fine perseguito. Un progressivo processo di aggravamento delle sanzioni interviene negli anni successivi con la legge n. 102/2006 che prevede l’aumento delle pene edittali nell’ipotesi di omicidio colposo, se il fatto è commesso con violazione delle norme della circolazione stradale e nel caso in cui scaturiscano lesioni colpose gravi o gravissime; per gli stessi reati è previsto anche l’inasprimento della sanzione accessoria della sospensione o revoca della patente. Il trend prosegue fino ai nostri giorni con il D.l. n. 117 dell’agosto 2007  in cui si riconfigura come reato  contravvenzionale la “guida senza patente” fattispecie  già depenalizzata  nel ’99.  La guida di autoveicoli o motoveicoli senza conseguimento o rinnovo della patente o con la patente revocata, torna ad essere dunque reato contravvenzionale punibile con un’ammenda che nel suo valore economico rimane pressoché invariata rispetto alla sanzione amministrativa pecuniaria già prevista. Ciò che muta è la previsione dell’arresto che può essere disposto soltanto in caso di recidiva in un arco temporale di 2 anni e può arrivare fino ad 1 anno, dunque per un periodo superiore ai 6 mesi già previsti dal codice del ’59. Si deve dunque ritenere che esista un rinnovato orientamento del Legislatore verso lo strumento penale, come arma più efficace di dissuasione dall’adottare comportamenti di guida scorretti? Siamo di fronte ad un percorso inverso rispetto a quello perseguito nell’arco di 20 anni di legislazione in materia? E’ certo che la portata normativa del Dl di Agosto, convertito con modifiche in legge, il 2/10 u.s., dimostra una generale tendenza a orientare parte della legislazione verso un inasprimento delle sanzioni. A dimostrazione basti citare le nuove fattispecie di reati di guida  in stato di ebbrezza alcolica e da assunzione di stupefacenti, dove la pena dell’arresto può arrivare anche a un massimo di 6 mesi e l’ammenda a € 6.000, con il raddoppio delle stesse in caso di incidente stradale; oltre ad essere state inasprite le sanzioni amministrative accessorie della sospensione e revoca della patente. Peraltro, tale provvedimento, in sede di conversione, sembra aver voluto attenuare la spinta iniziale verso l’aggravamento dell’intero impianto sanzionatorio di tipo tradizionale (sia esso amministrativo che di carattere penale) per individuare nuove tipologie di sanzioni accessorie  quali l’inibizione alla guida del veicolo nella fascia oraria dalle 2 alle 7 per i 3 mesi successivi alla restituzione della patente, in caso di superamento dei limiti di velocità, o nella previsione degli obblighi (piuttosto che divieti) quale quello di informare i giovani sui rischi connessi all’assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti, posto a carico dei gestori dei locali da ballo, insieme a quello di interrompere la somministrazione di bevande dopo le 2 della notte e di consentire l’effettuazione, all’uscita dei locali, della rilevazione volontaria del tasso alcolemico. In tale ambito, esemplare è la filosofia dell’istituto della patente a punti che, seppur con molti aspetti da rivedere per come è stata concepita nel nostro Paese, contiene in sé tutte le componenti essenziali di un sistema equo ed equilibrato: la repressione, la prevenzione, la rieducazione, ivi compreso l’aspetto premiante per il comportamento virtuoso. Peraltro, è opinione di gran parte della dottrina che l’unica differenza tra “reato” e “illecito amministrativo”  consista nel criterio formale-terminologico, nel senso che il reato è sanzionato con la pena detentiva della reclusione o dell’arresto e con la pena pecuniaria dell’ammenda o della multa, mentre l’illecito amministrativo è punito con una sanzione amministrativa che può essere di natura pecuniaria oppure misura di altro tipo. Ciò dimostra una continuità tra reato e illecito che non muta il grado di afflittività che possono raggiungere entrambe le tipologie di fattispecie di illecito.  In conclusione  non si può che ribadire che qualsiasi sia l’impianto sanzionatorio di un sistema di norme fatto di obblighi e divieti, l’importante è che i destinatari abbiano la sensazione che le norme vengano poi effettivamente applicate attraverso un sistema di vigilanza del territorio (sia da parte della forze dell’ordine che attraverso apparecchiature telematiche fermo e costante nel tempo) che sia fermo e costante nel tempo. La norma perciò deve essere certa, equa, cogente ed effettivamente applicata. Si potrà così raggiungere una sorta di “condivisione” da parte dei cittadini rispetto ad un impianto normativo, non più imposto dall’alto e con l’intento prevalente di reprimere, ma piuttosto finalizzato a prevenire gli incidenti stradali e in quanto realmente applicato, rispettato, ma non per paura della sanzione, bensì quale adesione spontanea e volontaria, conseguente ad una effettiva consapevolezza e presa di coscienza dei rischi connessi a comportamenti di guida scorretti.  

 

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