- Approfondimenti e Articoli di dottrina
- Urbanistica, territorio e infrastrutture
Toponomastica e segnaletica di localizzazione del territorio
Attilio CARNABUCI
1. Premessa
La toponomastica (il termine deriva dal greco topòs, "luogo", e ònoma, "nome") è la scienza che studia la denominazione delle aree destinate alla pubblica circolazione (vie, viali, piazze, larghi, giardini, et c.). Le ragioni che conducono all’attribuzione di un nome, anziché di un semplice numero, alle aree suddette sono, soprattutto, di ordine geografico, storico, culturale e sociale. E’ essenzialmente da tali ragioni che, infatti, scaturisce l’esigenza di tramandare nel tempo la memoria di determinati luoghi, persone o eventi, ritenuti particolarmente significativi dalla collettività. Come è stato opportunamente rilevato in letteratura: “La lettura della toponomastica di una carta che rappresenti una parte qualsiasi dell’Italia è solo in apparenza un’operazione sincronica. I toponimi che si trovano sullo stesso piano l’uno accanto all’altro hanno in molti casi origini diverse per profondità cronologica e appartenenza culturale: vanno quindi interpretati secondo una lettura stratigrafica che individui l’epoca storica, la società e l’etnia che li ha fissati. Nel caso dell’Italia si tratta di un’operazione resa complessa da quasi tre millenni di storia e spesso i toponimi rappresentano l’unica testimonianza ancora visibile di etnie e culture ormai cancellate dal tempo. Le testimonianze più remote sono quelle che appartengono ai sostrati precedenti alla diffusione del latino”[1]. Si comprende, pertanto, come, nonostante l'azione tendenzialmente omogeneizzatrice esercitata della cultura ufficiale negli anni successivi all’unificazione politica della Penisola, “al di sotto della superficie, è possibile distinguere, tuttora, fra le varie Regioni d'Italia, una discreta varietà di aspetti, corrispondenti, in parte, alle differenze dialettali o alle diversità delle rispettive tradizioni delle cancellerie ed, in parte, alla varietà dei substrati etnici”[2]. Tale fenomeno, invero, non può essere in alcun modo sottaciuto e spiega la presenza, nel nostro Paese, al di là della sussistenza di diverse zone in cui sono riscontrabili minoranze linguistiche giuridicamente riconosciute e tutelate, dell’importanza rivestita dai nomi locali, se si considera che “un nome locale, che sia strettamente collegato alle vicende del rispettivo ‘sito’, ha la possibilità di sopravvivere molto di più nel tempo di un nome comune, passando attraverso le più disparate esperienze di popoli e di lingue diverse”[3].
2. La denominazione di nuove strade e piazze pubbliche
Sotto il profilo giuridico, le competenze in materia di denominazione di nuove strade o piazze pubbliche, secondo quanto dispone l’art. 10 L. 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente), sono prettamente comunali, e ciò si spiega agevolmente se si considera che il Comune è l’Ente territoriale di base, che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo (art. 3, comma 2, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267: Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali). Alla scelta di attribuire un determinato nome, anziché un altro, non può che essere attribuita natura politica, sottratta, come tale, al sindacato dell’autorità giudiziaria ordinaria ed amministrativa. Ad ogni modo, la materia è regolata da specifiche disposizioni normative[4], alcune delle quali risalenti agli anni della dittatura fascista, ma ritenute pienamente compatibili con l’ordinamento repubblicano, se si considera la delicatezza delle valutazioni che, normalmente, presiedono all’intitolazione di una piazza o di una via, alle quali non possono ritenersi estranei, in via di principio, profili attinenti alle risposte ed alle reazioni della collettività e, conseguentemente, all’ordine pubblico[5]. L’art. 1 L. 23 giugno 1927, n. 1188 (Toponomastica stradale e monumenti a personaggi contemporanei) dispone che l’attribuzione della denominazione a nuove strade e piazze pubbliche da parte dei Comuni è subordinata all’autorizzazione del Prefetto - che, rappresentando il Governo nell’ambito della provincia, è ritenuto l’organo più idoneo a conciliare le istanze delle collettività locali con l’interesse generale - udito il parere della Deputazione di Storia Patria o, ove questa manchi, della Società storica del luogo o della regione. Più precisamente, l’amministrazione comunale deve presentare una richiesta al Prefetto, allegando la delibera della Giunta, concernente l’oggetto della richiesta stessa, la planimetria dell’area territoriale interessata ed il curriculum vitae della persona alla quale si intende dedicare l’area. Ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2, 5 e 6 della normativa citata, nessuna strada o piazza può essere intestata a persona che non sia deceduta da almeno dieci anni; tale disposizione non si applica, tuttavia, ai caduti di guerra o per causa nazionale, mentre al Ministro dell’Interno è, in ogni caso, conferita la facoltà di consentire la deroga al divieto di cui sopra, quando si tratti di persone che abbiano riportato benemerenze dalla Nazione. Con Circolare 29 giugno 1981, n. 7, che risente indubbiamente del particolare clima dei così detti “anni di piombo”, il Ministero dell’Interno aveva ritenuto necessario estendere in tutta la sua ampiezza il potere discrezionale riconosciutogli dalla legge in ordine alla facoltà di deroga. Pertanto, quest’ultima veniva subordinata a valutazioni inerenti all’opportunità politica dell’atto in considerazione dei “possibili e non trascurabili riflessi negativi nei commenti della pubblica opinione”. Il suddetto Dicastero giungeva alla conclusione che la deroga non poteva essere accordata qualora, a livello nazionale, si fosse riscontrata la sussistenza di “fondate controindicazioni”. Successivamente, il sempre più frequente ricorso alla deroga ha indotto il Ministero dell’Interno a delegare ai Prefetti, a decorrere dal 1^ gennaio 1993, la facoltà di autorizzare le intitolazioni di luoghi pubblici e monumenti a persone decedute da meno dieci anni, e ciò sulla base della ben diversa considerazione che tali autorizzazioni implicherebbero, prevalentemente, valutazioni rientranti nella competenza dell’autorità prefettizia quale responsabile, a livello provinciale, dell’ordine e della sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 13 L. 1^ aprile 1981, n. 121 (Circolare 29 settembre 1992, n. 18). Pertanto, da tale data, i Prefetti provvedono direttamente a concedere la deroga al divieto di cui all’art. 4 L. 23 giugno 1927, n. 1188: circostanza che ha reso, certamente, più semplice e veloce il relativo iter procedimentale. Ai Prefetti è, comunque, riconosciuta la possibilità di sottoporre all’attenzione del Ministero dell’Interno, ai fini della decisone definitiva, i casi in cui, per fondati motivi di ordine pubblico, non ritengano di rilasciare il provvedimento autorizzatorio.
3. Il mutamento del nome di strade e piazze pubbliche preesistenti
Ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1 R.D.L. 10 maggio 1923, n. 1158 (Norme per il mutamento del nome delle vecchie strade e piazze comunali), convertito in L. 17 aprile 1925, n. 473, e 7 D.Lgs. 20 ottobre 1998, n. 368 (Istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), per il mutamento del nome di strade o piazze comunali preesistenti, oltre al parere della Deputazione di Storia Patria - o, dove questa manchi, della Società storica del luogo o della Regione - è necessaria anche la previa approvazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, per il tramite delle Soprintendenze Regionali. Inoltre, nelle ipotesi in cui la determinazione comunale riguardi la modifica della denominazione di una strada urbana con l’attribuzione del nome di una persona deceduta da meno di dieci anni, è necessaria, a pena di illegittimità, non solo l’approvazione del Ministero dei Beni e le Attività Culturali ma anche l’autorizzazione prefettizia[6]. Secondo quanto dispone, inoltre, l’art. 41, commi 1 e 2, D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), in caso di cambiamento di denominazione di un’area di circolazione, deve essere indicata anche la denominazione precedente, mentre nell’ambito del territorio comunale non può essere attribuita una stessa denominazione ad aree di circolazione dello stesso tipo, anche se comprese in frazioni amministrative diverse. La sopra menzionata Circolare 29 giugno 1981, n. 7 e la più recente Circolare 10 febbraio 1996 n. 4 del Ministero dell’Interno hanno espresso l’avviso che i Comuni procedano alla variazione della denominazione delle aree di circolazione in base ad effettive necessità e dopo un’approfondita riflessione in ordine alle sue conseguenze, dal momento che il ricorso generalizzato e frequente alla variazione dei toponimi esistenti può essere fonte di disagi non solo per i cittadini, costretti a provvedere all’aggiornamento di vari documenti (carta di identità, passaporto, patente di guida, porto d’armi, et c.), ma anche per gli uffici pubblici, in relazione ai necessari aggiornamenti dello schedario del servizio anagrafico, dello stradario e del piano topografico ed ecografico nonché agli aggiornamenti nel settore postale ed in quello dei registri immobiliari e del catasto[7]. In ogni caso, i procedimenti disciplinati, rispettivamente, dall’art. 2 della Legge n. 473 del 1925 e dall’art. 4, comma 2, della Legge n. 1188 del 1927 debbono ritenersi tendenzialmente autonomi, in quanto finalizzati a soddisfare distinti interessi pubblici. In particolare: - la Soprintendenza, ai sensi dell’art. 2 della Legge n. 473 del 1925, in sede di valutazione dell’istanza di soppressione totale o parziale di un toponimo stradale, deve valutare complessivamente le esigenze della tradizione storica e della cultura delle popolazioni e dei luoghi, di cui il toponimo costituisce espressione, anche in relazione a quello diverso che si intenda attribuire; - il Ministero dell’Interno, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della Legge n. 1188 del 1927, nel valutare se sussistano casi eccezionali, quando si tratti di persone che abbiano benemeritato della Nazione, e scomparse da meno di dieci anni, deve effettuare una ponderata ed equilibrata valutazione degli interessi in conflitto e delle esigenze di ordine pubblico. La Soprintendenza, dunque, è competente a valutare ogni questione attinente alle modifica della toponomastica, mentre il Ministero dell’Interno è competente a valutare se una nuova strada possa essere intitolata ad un personaggio illustre, deceduto da meno di dieci anni. I due procedimenti, tuttavia, sono destinati ad intersecarsi allorché la proposta di intitolazione di un tratto stradale, ad un tempo, si riferisca ad un personaggio scomparso da meno di dieci anni, in sostituzione (totale o parziale) di un precedente toponimo. In tal caso, la giurisprudenza amministrativa è dell’avviso che la Soprintendenza possa esprimere il proprio parere valutando, sotto tutti gli aspetti di ordine storico e culturale, anche se sia il caso di sostituire un toponimo antico con l’intitolazione ad un personaggio illustre e scomparso di recente: “Infatti, l’art. 2 della Legge n. 473 del 1925 consente alla medesima Amministrazione di comparare il toponimo attuale con quello oggetto della proposta modificativa, che in ipotesi può riguardare o un avvenimento o un personaggio ricollegabile al toponimo esistente (e la cui connessione ancor più ne sottolinei il rilievo culturale), ovvero un avvenimento o un personaggio a questo assolutamente non ricollegabile. In altri termini, la Soprintendenza può unitariamente valutare la condivisibilità della proposta di modifica non soltanto in considerazione del toponimo di cui è prevista in tutto o in parte la soppressione, ma anche valutando quello diverso che si intenda attribuire, pur quando la proposta miri alla sostituzione dell’antico toponimo col nome di un illustre personaggio scomparso da meno di dieci anni”[8].
4. La possibilità, per gli Enti Locali, di utilizzare, nei segnali di localizzazione territoriale, lingue regionali o idiomi locali
Le norme in materia di toponomastica debbono essere sistematicamente lette con quelle che disciplinano la segnaletica stradale di localizzazione territoriale. Occorre richiamare, al riguardo, sia pur brevemente, le norme statali che regolano la materia ed, in primo luogo, l'art. 125 del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada (D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495), il quale ha previsto la possibilità di realizzare, nelle zone ufficialmente bilingui, la segnaletica stradale in più lingue, escludendo implicitamente la possibilità dell’uso dei dialetti. La Legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), nel prevedere misure di tutela e valorizzazione della "cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo" dispone, all'art. 10, che, in aggiunta (non in sostituzione), ai toponimi ufficiali, i Consigli comunali possono deliberare l'adozione di toponimi “conformi alle tradizioni e agli usi locali". Il relativo Regolamento di attuazione (D.P.R. 2 maggio 2001 n. 345: Regolamento di attuazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche) prevede, in relazione agli ambiti territoriali delle minoranze linguistiche storiche, la possibilità di utilizzare indicazioni bilingui negli uffici pubblici "con pari dignità grafica" e ne disciplina la segnaletica stradale: "nel caso siano previsti segnali indicatori di località anche nella lingua ammessa a tutela, si applicano le normative del codice della strada, con pari dignità grafica delle due lingue". In altre parole, la norma consente, esclusivamente nelle zone bilingui, la possibilità di riportare le iscrizioni in non più di due lingue riconosciute ufficialmente, senza consentire l’utilizzo di alcuna forma dialettale. Il Codice della Strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285) è stato novellato con L. 1º agosto 2003, n. 214 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151, recante modifiche ed integrazioni al Codice della Strada), la quale, introducendo il comma 2-bis all’art. 37, attribuisce agli Enti Locali e, più precisamente, ai Comuni - non solo a quelli in cui sono presenti minoranze linguistiche storiche o zone ufficialmente bilingui - la facoltà di utilizzare, nei segnali di localizzazione territoriale del confine del comune, anche “lingue regionali o idiomi locali” presenti nella zona di riferimento, anche se, pur sempre, in aggiunta alla denominazione in lingua italiana, dalla quale non è possibile prescindere in alcun caso. Ai sensi del comma 3 dello stesso articolo, contro i provvedimenti e le ordinanze che dispongono o autorizzano la collocazione della segnaletica è ammesso ricorso, entro sessanta giorni e con le formalità stabilite nell’art. 74 del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada, al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che decide in merito. In buona sostanza, appare evidente che il legislatore statale consente, attualmente, l'adozione di toponimi conformi alle tradizioni ed agli usi locali unicamente per le lingue minoritarie da esso stesso indicate (delle quali – giova ripetere - non fanno parte i dialetti) e, solo in aggiunta (non in sostituzione) ai toponimi ufficiali; inoltre, sotto l'aspetto specifico della segnaletica stradale, il Codice della Strada prevede che i Comuni possano utilizzare, nei segnali di localizzazione territoriale del confine del comune, le lingue regionali o gli idiomi locali presenti nella zona di riferimento, ma pur sempre in aggiunta alla denominazione in lingua italiana.
5. Le Regioni a statuto speciale e il bilinguismo
Gli statuti speciali hanno attribuito, in materia di toponomastica, una competenza legislativa esclusiva alla Valle d’Aosta ed alle Province Autonome di Trento e Bolzano ed una competenza concorrente al Friuli Venezia Giulia[9]. Ne consegue che, in tale materia, la Valle d’Aosta e le due Province Autonome, prima della riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, potevano emanare leggi nei limiti dei principi generali dell’ordinamento giuridico (ricavabili dalla Costituzione) e delle norme fondamentali delle riforme economico sociale, mentre il Friuli Venezia Giulia poteva legiferare soltanto nel rispetto di principi fondamentali della materia, stabiliti con legge dello Stato. Il fondamento giuridico dell’attribuzione di tale competenza alle Regioni di cui sopra è da rinvenire nell’art. 3, comma 1, della Carta fondamentale, che sancisce il divieto di discriminazione in ragione dell’utilizzo di una lingua diversa da quella nazionale, e nell’art. 6 della stessa Carta, secondo cui la Repubblica tutela, con apposite norme, le minoranze linguistiche. La Circolare 10 febbraio 1996, n. 4, del Ministero dell’Interno ha preso in considerazione il problema delle minoranze linguistiche e dell’uso dei dialetti nell’intitolazione di strade o piazze, osservando che anche le Regioni cui è attribuita competenza esclusiva in materia di toponomastica (ed, a fortiori, il Friuli Venezia Giulia, che ha competenza concorrente) devono comunque conformarsi alle norme di attuazione degli statuti e devono attenersi alle disposizioni che prevedono il bilinguismo soltanto ove effettivamente vigente. Viene escluso, pertanto, nelle iscrizioni toponomastiche, l’utilizzo dei dialetti, “che non godono, allo stato attuale della legislazione, di alcuna tutela in tal senso”. Tale orientamento non può non essere, tuttavia, rivisto alla luce della sopra menzionata riforma del Titolo V della Carta fondamentale, che ha riconosciuto allo Stato una potestà legislativa esclusiva su un elenco di materie contenuto nell’art. 117, comma 2, Cost., ed una potestà concorrente nelle materie di cui comma 3 dello stesso articolo. In tutte le materie non comprese negli elenchi predetti, la potestà legislativa spetta, in via residuale, alle Regioni. La riforma di cui sopra ha inciso anche sugli statuti speciali. Infatti, dal momento che la potestà legislativa delle Regioni a statuto ordinario è da ritenersi, oggi, totalmente libera rispetto ai vincoli tradizionali, l’art. 10, L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) ha esteso l’applicazione della riforma anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province Autonome di Trento e Bolzano “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”, fino all’adeguamento dei rispettivi statuti. In mancanza di specifiche indicazioni, la materia relativa alla toponomastica sembrerebbe doversi ritenere attribuita, oggi, alla potestà legislativa (esclusiva) delle Regioni, le quali potrebbero, in teoria, utilizzarla per consentire l’utilizzo generalizzato di lingue o dialetti diversi dalla lingua ufficiale nella denominazione dei luoghi pubblici, e ciò con un indubbio riverbero in ordine alla stessa nozione di unitarietà dell’ordinamento[10]. Vero è che la L. 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche) dispone chiaramente, all’art. 1 che la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano[11] ma si tratta, appunto, di una legge ordinaria, che potrebbe anche essere abrogata dall’intervento di una successiva legge regionale. In effetti, un importante elemento a favore dell’unità, anche linguistica, della Nazione si può ravvisare, ancora oggi, dall’art. 120 Cost., ai sensi del quale le Regioni non possono, tra l’altro, adottare provvedimenti che ostacolino, in qualsiasi modo, la libera circolazione delle persone tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. Nell’ipotesi in cui lo richieda l’esigenza di tutelare l’unità nazionale, la stessa norma costituzionale attribuisce al Governo il potere di sostituirsi, sia pure nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, agli organi delle Regioni, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. Di recente, il Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia ha approvato la Legge Regionale 17 febbraio 2010, n. 5 (Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella regione Friuli Venezia Giulia). Scopo dichiarato della legge è la valorizzazione dei dialetti di origine veneta (nelle seguenti espressioni: il triestino, il bisiaco, il gradese, il maranese, il muggesano, il liventino, il veneto dell'Istria e della Dalmazia, nonché il veneto goriziano, pordenonese e udinese), quale patrimonio tradizionale della comunità regionale e strumento di dialogo nelle aree frontaliere e nelle comunità dei corregionali all'estero. Tali attività di valorizzazione sono dirette, con il concorso delle Province e dei Comuni, “a conservare la ricchezza culturale presente nel territorio regionale e nelle comunità dei corregionali all'estero, e renderla fruibile anche alle future generazioni, sviluppando l'identità culturale e favorendo l'utilizzo del dialetto nella vita sociale”. In particolare, la Regione Friuli Venezia Giulia si impegna, tra l’altro, a promuovere e sostenere interventi in materia di toponomastica e cartellonistica. In tale materia, infatti, la Regione si impegna a sostenere indagini e partecipare alle iniziative di studio e ricerca promosse dai Comuni, anche in collaborazione con università e istituti culturali, nonché a sostenere gli Enti Locali e i soggetti pubblici e privati che operano nei settori della cultura, dello sport, dell'economia e del sociale per l'utilizzo di cartellonistica, anche stradale, nei dialetti di origine veneta. Il Consiglio dei Ministri ha impugnato la Legge Regionale in questione, in quanto prevede, genericamente, l'utilizzo esclusivo dei dialetti veneti per la cartellonistica stradale, rilevando, al riguardo, non solo che, così disponendo, tali norme regionali finirebbero con l’attribuire a detti dialetti una tutela più ampia di quella che il legislatore statale riconosce alle sole lingue minoritarie, tra le quali non sono ricompresi i dialetti, ma, soprattutto, che le stesse norme verrebbero ad incidere nella competenza esclusiva statale in materia di circolazione stradale, della quale la segnaletica stradale fa parte.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------
[1] NOCENTINI, Toponimi italiani: origine ed evoluzione, in www.igmi.org. Cfr., al riguardo, anche PELLEGRINI G. B., Toponomastica italiana, Milano, Hoepli, 1990, passim. [2] Leggi d’Italia – Enti Locali, De Agostini, Novara, 2008. [3] Ibidem. [4] CANTILE, Norme toponomastiche nazionali, in www.igmi.org.: “La necessità di definire precise regole per la definizione di una toponomastica ufficiale italiana fu dibattuta più volte già dai primi congressi geografici italiani, con discussioni che riguardarono «la ragion della lingua [...], le ragioni storiche, la necessità dell’integrare le denominazioni locali insufficienti o manchevoli» (ERRERA C., 1894, p. 359), mentre fin da subito venne riconosciuta l’importanza della toponomastica come bene culturale, perché «costituiscono i nomi locali nel giro della storia, una suppellettile scientifica che si può confrontare con quella che nell’ordine delle vicende fisiche è data dai diversi giacimenti che il geologo studia» (ASCOLI G. I., 1895) (…). Nei primi anni del Novecento, si ampliò notevolmente la consapevolezza dell’importanza di una toponomastica normalizzata, producendo grossi sforzi di razionalizzazione dei metodi di raccolta e trascrizione dei nomi di luogo, legati al processo di allestimento cartografico, che cercarono di garantire nel corso dei decenni successivi una maggiore omogeneità di trattamento alla materia, anche se alcuni problemi rimasero ancora insoluti”. [5] Cfr. BARTOLI, La toponomastica: alcune riflessioni sulla circolare del Ministero dell’Interno n. 4 del 10 febbraio 1996, in Lo Stato Civile Italiano, Settembre 1996, 678 ss., il quale riporta l’esempio dell’intitolazione di una strada ad un noto criminale ovvero ad un dittatore del passato. [6] Cfr. T.A.R. Lazio, sez. II, 7 marzo 1983, n. 199, in www.giustizia-amministrativa.it. [7] DEVECCHIS G, Denominazioni comuni e nomi propri di località abitate, in www.igmi.org. : “Mutamenti profondi nelle strutture economiche, con conseguente repentina scomparsa di sistemi e tecniche di produzione, hanno avuto riflessi importanti nella toponomastica, in qualche modo obbligata ad assegnare nuove denominazioni, anche per le relative riconversioni di significato dovute all’alterazione e alla mutazione degli usi: si considerino, ad esempio, le nuove forme di insediamento per le vacanze costituite da agglomerati di «seconde case» (…). L’esigenza di attribuire ai luoghi nomi nuovi, per individuare recenti acquisizioni edilizie e urbanistiche (ad esempio, un edificio o un complesso residenziale e/o industriale), è più forte quando le presenze toponomastiche del passato non sono molto radicate; non va dimenticato infatti che il toponimo esistente tende a permanere e spesso è accettato in modo quasi inconsapevole dagli stessi nuovi fruitori che spesso, però, hanno perso la consapevolezza del significato originario, nonché delle sue trasformazioni nel tempo. Anche per questo la raccolta dei termini geografici e dei toponimi derivati, che rappresentano un patrimonio importante dei rapporti tra cultura e ambiente, riveste un’enorme importanza scientifica”. Cfr, inoltre CASSI L., Nuovi toponimi, ibidem., la quale rileva che “all’inizio degli anni ‘20 i segni di cambiamento in senso propriamente moderno erano ancora abbastanza limitati in confronto a quelli che si verificheranno di lì a pochi decenni, e cioè dopo la seconda guerra mondiale, perché la toponomastica potesse in qualche misura renderne conto: lo spopolamento montano, seppure già avviato, non aveva ancora assunto le dimensioni degli anni ‘50; le città, seppure in crescita pronunciata, recavano ancora evidenti le impronte del passato; città e campagna erano ancora entità ben distinte; lo sviluppo delle «marine» sulle aree costiere era ancora in fase iniziale tanto per citare alcuni aspetti (…) A nostro parere dunque gli anni del secondo dopoguerra, o tutt’al più i decenni immediatamente precedenti, rappresentano una soglia plausibile per considerare «nuovo» un nome di luogo, perché tale periodo di fatto introduce le nostre contrade nella piena modernità. Intorno alla metà del .900, infatti, si consuma definitivamente il declino delle forme di vita e di organizzazione socioeconomica di tipo tradizionale. In Italia, dove gran parte della popolazione era fino ad allora vissuta di agricoltura, si assiste al tramonto dei sistemi agro-silvo-pastorali ereditati e al rapido sviluppo delle attività secondarie, dapprima localizzate prevalentemente in aree circoscritte e incentrate sulle grandi imprese, successivamente caratterizzate da una distribuzione diffusa sul territorio, seguita dal proliferare della cosiddetta «industrializzazione leggera», con il decollo di sistemi produttivi basati su una molteplicità di piccole imprese in aree periferiche più o meno distanti dalle aree metropolitane, spesso in regioni rimaste fino alla metà degli anni ‘70 escluse (almeno in parte) dallo sviluppo industriale. Anche il fortissimo incremento delle attività terziarie e lo sviluppo delle reti di trasporto e di comunicazione contribuiscono dopo gli anni ‘50 a ridisegnare nuovi assetti distributivi della popolazione, mostrando una particolare preferenza per le aree di pianura e quelle costiere. Da sottolineare pure la crescita della popolazione urbana, divenuta particolarmente sostenuta dopo la seconda guerra mondiale, interessando le città di ogni dimensione. Col tempo quelle grandi si sono ridimensionate a vantaggio dei centri adiacenti, tanto che alla fine degli anni ‘80 la «città diffusa» è una realtà compiuta”. [8] Consiglio di Stato, Sez. IV,18 ottobre 2002, n. 6120, in www.giustizia-amministrativa.it. [9] Alla Sicilia, alla Sardegna ed alle rimanenti Regioni non è riconosciuta alcuna competenza in materia di toponomastica. [10] E’, infatti, evidente che l’utilizzo di un idioma locale nell’ambito di una determinata Regione (idioma che potrebbe anche risultare poco comprensibile a coloro che non sono originari di quella Regione) potrebbe costituirebbe un grave impedimento alla circolazione delle persone tra Regioni diverse. [11] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 159 del 18 maggio 2009, nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, 14, commi 2 e 3, e 18, comma 4, della Legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri con ricorso notificato il 25 febbraio 2008, depositato in cancelleria il 28 febbraio 2008 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2008: “La consacrazione, nell'art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale «lingua ufficiale della Repubblica» non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l'uso delle lingue minoritarie, evitando che esse possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica; e ciò anche al di là delle pur numerose disposizioni specifiche che affermano espressamente nei singoli settori il primato della lingua italiana (art. 4, comma 1; art. 7, commi 3 e 4; art. 8. confronta, inoltre, l'art. 6, comma 4, del regolamento di attuazione della legge n. 482 del 1999, emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 2 maggio 2001, n. 345). Nel dettaglio, specifiche garanzie sono dettate dalla legge n. 482 del 1999 per le scuole materne, elementari e medie inferiori (artt. 4 e 5), per le università operanti nelle Regioni interessate (art. 6), per gli organi a struttura collegiale di Comuni, Comunità montane, Province e Regioni (art. 7), per le pubblicazioni dei Comuni (art. 8), per le pubbliche amministrazioni operanti localmente e per i giudici di pace (art. 9), per i Comuni che esercitano competenze in tema di toponomastica (art. 10), per gli organi competenti in materia di ripristino del nome originario (art. 11), per il servizio pubblico radiotelevisivo (art. 12). Questa legge si autoqualifica come non modificabile da parte delle Regioni ad autonomia ordinaria, dal momento che lascia ai rispettivi legislatori il solo potere di adeguare la propria normativa, nelle materie ad essi devolute, ai principi della legge statale (art. 13). Per le Regioni a statuto speciale, escluso che la legge possa innovare le speciali norme statutarie esistenti, si prescrive che «l'applicazione delle disposizioni più favorevoli previste dalla presente legge è disciplinata con norme di attuazione dei rispettivi statuti» (art. 18).”